«Gli uomini, all’inizio come adesso, hanno preso lo spunto per filosofare dalla meraviglia, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni più semplici e di cui essi non sapevano rendersi conto, e poi, procedendo a poco a poco, si trovarono di fronte a problemi più complessi, come i fenomeni riguardanti la Luna, il Sole, le stelle e l’origine dell’universo». (Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, 12)
Il terrore di Wuhan è arrivato in Italia e l’epidemia dilaga in tutto il continente. La paura fa novanta. La paura è femminile, dicono, perché è come un canone inverso; è uno spartito che si legge, solo, dall’ultima nota alla prima. La paura non è un televisore o una radio ma, può essere trasmessa; come un virus e più di un virus. La paura è umana ma è anche disumana? Nei momenti difficili, la paura può essere d’aiuto se non ti paralizza come un eunuco. Potremmo continuare all’infinito. Ma che cos’è la paura? È giusta o sbagliata, buona o cattiva? Ma soprattutto, proveremo a capire cosa ha a che fare con l’essere umano.
In questo stralcio della «Metafisica» di Aristotele, troviamo un termine che può chiarirci le idee thauma (meraviglia), a cui è legato il verbo thaumazein (provare meraviglia). Agli esordi della filosofia, thaumazein indicava quel senso di sbalordimento e inquietudine nell’uomo. Il quale, inizialmente si interroga sul senso delle cose per poi approdare ad una radicalizzazione esistenziale nel domandarsi il senso delle cose. Dunque, non si può filosofare senza «meraviglia». Ma la traduzione del termine dall’antico greco, non è corretta e dice qualcosa di diverso. Qualcosa che non vorremmo mai provare, evolutosi persino verso forme di intrattenimento: Omero, descrisse il ciclope Polifemo «un mostro che greggi pasceva solo in disparte» ma anche come «un mostro gigante; e non somigliava a un uomo mangiator di pane, ma a picco selvoso». La sua descrizione, rimanda a qualcosa di minaccioso e di inquietante, al significato autentico del greco antico di thauma, da intendersi con ciò che noi definiamo essere la paura.
Ovviamente, questo piccolo ma significativo errore di traduzione, non può certo distoglierci dal pensare allo sgomento ancestrale che ha sempre accompagnato l’uomo, nella sua interezza. Questo sgomento è apparso all’uomo, quando ha scoperto che il mondo è soggetto al divenire di tutte le cose, compresa la sua esistenza. Più precisamente ad un ciclo continuo di nascita e morte, di rigenerazione e di deperimento, che ha sempre visto l’essere umano alla continua ricerca di un rimedio alla fine. Una ricerca impossibile se non vana, il cui successo appare poco probabile perché non tiene conto della particolarità del divenire: della sua immanenza che nulla ha a che vedere con una sua possibile trascendenza. Vale a dire, del suo far parte di tutte le manifestazioni delle cose del mondo, dal fuoco all’acqua, dal caldo al freddo, dall’asciutto all’umidità, dal solido al vuoto, dalla nascita alla morte etc., non curante che la molteplicità del divenire si trovi giustappunto alla base di ogni altro ente o realtà. Dunque, è corretto dire che la filosofia nasce dal thauma, dallo sguardo angosciato sul mondo in preda all’eterno divenire?
La risposta più sensata che dovremmo darci è la seguente: la filosofia indaga l’eterno divenire, la molteplicità dei fatti ed i loro mutamenti continui, così come ne fanno parte le emozioni della paura e della meraviglia. Come abbiamo avuto modo di constatare, l’emozione della paura, quando viene intesa come una funzione equilibratrice del pensare a tutto ciò che accade e di cui siamo soggetti, può essere d’aiuto. Non aiuta invece, ad aprirsi alle cose del mondo ma bensì a comprenderle: purché, non ci si butti a capofitto nel provare ad eluderle quando queste sono negative o quando sono positive. È chiaro che non rientra in quella concezione “ermeneutica del ponte”, in quanto non è un tramite tra le cose del mondo e l’uomo: se intesa nel suo significato, può tutelarci frenando le nostre azioni e percezioni, potenziandole contro la superficialità verso un pericolo imminente, ristabilendo il senso del limite.
Uno dei problemi correlati alla paura, è l’educazione alla paura di ciò che realmente siamo. Stiamo parlando dell’apertura a tutto ciò che è differente e sconosciuto alla nostra concezione del mondo, bersagliata continuamente dai quesiti degli “esperti del buon vivere”, che impongono il biasimo e la constatazione “amara” su quanto siamo legati a degli stereotipi che in realtà non ci sono; sulla mancanza di apertura mentale che nasconde tutt’altro. Quando le porte si aprono, appaiono i ponti dell’ideologia: dell’universalismo, del cosmopolitismo e del mondialismo. Sappiamo che l’interazione con la paura è spesso descritta dagli psicologi, quale fosse il «metodo per prendere le misure con la realtà». Ma l’interazione comporta una reciproca influenza con la paura che rientra nella sfera dei sentimenti ma anche delle emozioni. Sono cose che generano pensieri e riflessioni: la paura può indubbiamente essere d’aiuto agli uomini per esercitare il pensiero.
Possiamo dire che può anche mettere in moto l’«esserci» del «Daisen» heideggeriano, ontologico e fenomenologico, spingendoci ad aprire quelle porte che vanno aperte con cautela per non finire in un baratro, potenziandoci inoltre, contro la rapidità e le frivolezze del nostro tempo. Un uomo che non conosce la paura, è un uomo razionale nell’accezione negativa del termine, dedito al calcolo aprioristico. A quella raffigurazione della miscellanea tra razionalizzazione e l’irrazionale che può scomporre gli elementi costitutivi della paura. È proprio quello che sta accadendo in questi giorni di emergenza, dove la paura è diventata la matrona dell’irreale sin troppo reale. Invece di vedere in essa quel qualcosa che può aiutarci a discernere tra doppiezza e verità.
Francesco Marotta