Il pensiero antico – con Talete, Anassimandro, Eraclito, Senofane e tanti altri – era fondamentalmente monista. Dalla constatazione degli opposti, non ne faceva deriva il dualismo, ma la conciliazione dei contrari. Nell’Antichità, non si confondeva la divinità con gli uomini, gli uomini con gli animali, gli animali col mondo vegetale, i vegetali con la materia inanimata, ma veniva attribuito a ognuno di essi un livello differente all’interno di un processo continuo di percezione. Per gli Antichi, tutto era vivo, sia gli uomini che gli animali, partendo da un principio di vita e di movimento, che i Greci chiamavano psyche, termine che viene solitamente tradotto con «anima» (si noti che il termine latino anima è all’origine della parola «animale»).
Per Aristotele, l’uomo è solamente un animale dotato di logos, l’unico animale «razionale». Si noti tuttavia che Aristotele non dice che l’uomo è l’unico essere dotato di ragione, ma afferma che sia il solo «animale dotato di ragione», formula che mostra chiaramente ciò che accomuna l’uomo e l’animale e contemporaneamente ciò che li differenzia. Per Aristotele, l’anima dell’uomo differisce da quella degli animali nel senso che l’uomo può accedere al pensiero concettuale ed estrapolare nozioni generali a partire dalle sue percezioni singolari, ma questa differenza, seppur decisiva, è al contempo relativa: non si tratta di una rottura netta tra il mondo animale e quello degli uomini, ma si tratta di una scala ininterrotta dal mondo inanimato fino a Dio. In altri termini, Aristotele riconosce l’unità del mondo, tutto il mondo, e vi introduce una gerarchia.
La tradizione stoica, da Crisippo a Seneca, sarà la prima a segnare una frontiera più netta tra l’uomo e l’animale. Per lo stoicismo, solo l’uomo è in grado di agire in funzione della sua sola ragione, mentre l’animale è sempre costretto dalla « necessità naturale ». Ma l’animale continua ad avere un’anima, il che spiega perché sia in grado di avere percezioni, sensazioni, di provare sofferenza e piacere. Una svolta radicale si verifica con il Cristianesimo, che afferma per la prima volta che l’animale non possiede un’anima: sebbene sia mortale come tutti gli altri esseri viventi, l’uomo è l’unico di essi a possedere un’anima. Essa non ha una sua natura, ma è il risultato della grazia di Dio; è individuale (non esiste un’anima collettiva); e, infine, è immortale. Nel Cristianesimo, questa triplice caratteristica è collegata all’affermazione dell’unità della specie umana. Esiste un legame molto forte tra l’unicità di Dio, l’unità della famiglia umana e la messa in disparte (si può dire un abbassamento) degli animali.
Secondo questa prospettiva, l’animale è fondamentalmente percepito come un uomo incompiuto, un essere vivente imperfetto, una « struttura privativa ». Alla luce dell’immenso fossato che lo separerà da quel momento in poi, l’uomo si sottrae dal discorso sugli animali e dissocia la sua natura dalla loro. Le conseguenze di questa rottura saranno enormi. La filosofia cartesiana sarà quella che ne darà la formulazione più decisiva. Descartes non condanna definitivamente solo l’idea che l’animale possa avere un’anima, ma contesta anche la tesi secondo la quale il vivente predomina sull’inanimato. Secondo Descartes, l’anima non ha più una funzione vitale: è solo un attributo del pensiero. « Penso dunque sono » significa che il primo attributo esistenziale dell’uomo risiede nel pensiero e non nella vita. Tra l’anima e il corpo dell’uomo non c’è quindi più alcun rapporto naturale: l’anima è puramente spirituale, mentre il corpo è puramente materiale. Doppio dualismo quindi: l’uomo è diviso in due – da un lato il corpo, dall’altro l’anima e lo spirito – e, d’altra pare, è più che mai radicalmente separato dagli animali. Parallelamente, Descartes assimila i viventi alle macchine. L’animale, non possedendo un’amina, non è altro che una macchina insensibile. Descartes spiega che l’animale non è in grado di pensare e in conclusione non è in grado di percepire, né di provare sofferenza o gioia. Le grida di un cane che viene picchiato vengono spiegate in modo puramente meccanico: i colpi di bastone provocano uno shock nervoso che causa il riempimento dei polmoni e l’espirazione dell’aria fa vibrare le corde vocali. Si tratta della teoria cartesiana dell’«animale-macchina».
Questo solleva evidentemente insormontabili problemi. Se l’anima e il corpo non hanno alcun rapporto naturale nell’uomo, come possono coabitare? Il dualismo cartesiano si diffonderà nonostante tutto, e in modo duraturo, in tutta una serie di domini: divisione tra corpo e anima, uomo e natura, spirito e materia, il piano spirituale e quello materiale, la ragione e le emozioni, la libertà e il determinismo, l’innato e l’acquisito, la natura e la cultura, l’essere e il divenire, l’istinto e la moralità, la necessità e la libertà, ecc –queste coppie di nozioni non definiscono più i differenti aspetti di un medesimo campo concettuale, ma si presentano come due poli dove l’affermarsi di uno comporta automaticamente la de-valorizzazione o la negazione dell’altro.
Descartes ha una tripla serie di eredi. Per primi, coloro che accettano la teoria dell’«animale-macchina», ma che rifiutano l’idea di una divisione tra uomo e animale; poi quelli che accettano l’idea che l’animale non ha un’anima, ma affermano che anche l’uomo non ne possiede una rigettando l’idea dell’«animale-macchina» a favore dell’idea dell’unità degli esseri viventi; infine, coloro i quali forniscono una interpretazione diversa da quella proposta da Descartes. La prima tendenza è rappresentata da alcuni pensatori meccanicisti dei secoli XVII e XVIII, tra i quali La Mettrie, i quali si sforzano di ridurre il ruolo dell’anima nella spiegazione dei fenomeni umani e sostengono che l’uomo è lui stesso una «macchina», nella stessa misura degli animali. Questa teoria ha il vantaggio di reintegrare l’uomo nell’ordine degli esseri viventi, ma di un vivente che non ha più alcuna caratteristica della vita. La seconda tendenza è rappresentata dalla corrente biologista che, attraverso le teorie evoluzioniste di Lamarck e di Darwin, rendono l’uomo un animale evoluto ricollocandolo pienamente all’interno dell’ordine degli esseri viventi, ma molti dei suoi esponenti restano sostanzialmente attaccati al pensiero analitico e al riduzionismo cartesiano. La terza tendenza si riferisce ai kantiani, i quali sostengono che la specificità dell’uomo sfugge completamente a qualsiasi determinazione biologica «naturale»: l’uomo, secondo loro, è divenuto uomo affrancandosi dal regno animale e afferma la sua «dignità» di essere umano man mano che continua ad allontanarsi dalla semplice natura.
Nel 1755, nel Trattato sugli animali, Condillac scriveva: « Non sarebbe interessante sapere cosa sono le bestie, se questo non fosse un modo per sapere cosa siamo noi ». Tutto il discorso sugli animali ha in effetti ripercussioni sull’uomo, sia che consideri sé stesso come un animale, sia che si dissoci dal mondo animale. Ma questo non è che un aspetto di una problematica molto più vasta, in cui la posta in gioco filosofica, scientifica, ideologica e religiosa è considerevole e che per quasi due millenni ha suscitato controversie innumerevoli. Si tratta della problematica relativa al posto che l’uomo occupa all’interno della natura. Il dibattito resta aperto ed è enorme.
(Articolo pubblicato sulla Rivista Revue Éléments. Traduzione a cura di Manuel Zanarini)