È appena uscita, per i tipi di Iduna, una nuova edizione di All’orlo della storia, un saggio dell’eclettico studioso statunitense William Irwin Thompson (1938-2000), con introduzione dello scrivente. Il sottotitolo di questa versione dell’opera, originariamente pubblicata negli USA nel 1971, è Per una critica della tecnocrazia: già qui si segnala la prospettiva che attraversa come un fil rouge questo testo ricco e composito, che spazia dall’analisi dell’America del Secondo dopoguerra alla futurologia, dalla filosofia della storia alla politologia, dalla sociologia all’esoterismo, sino a lambire elementi di storia delle idee (con un’affinità elettiva, a mio avviso, rispetto a molte linee prospettiche del Realismo Fantastico di Pauwels e Bergier).
Fra i temi trattati si distingue – e nell’ottica del Centro studi GRECE Italia mi sembra particolarmente rilevante – una acuta disamina e decostruzione del paradigma liberal-progressista. Le intuizioni di Thompson appaiono oggi a tratti incomplete sul piano politologico e, in certi aspetti, un po’ datate rispetto al modello neoliberista tecno-finanziario proprio dell’odierno «capitalismo della sorveglianza» (Shoshana Zuboff). Eppure, numerose intuizioni da lui formulate si sono rivelate profetiche, proprio riguardo all’ingegneria sociale e alla tecnocrazia, e risultano di particolare pregnanza nella misura in cui sono state formulate da un professore di Humanities del celebre M.I.T (ruolo che, d’altronde, non lo soddisfaceva – ecco perché, nel 1973,lasciò l’accademia per fondare un progetto di ricerca indipendente, la Lindsfarne Association). Thompson era ben consapevole, come notò in American Replacement of Nature (Doubleday, New York 1991), dei pericoli della mondializzazione liberale: «Il ruolo critico dell’America nella planetarizzazione dell’umanità sembra quello di un enzima catalitico che distrugge tutte le culture tradizionali del mondo, siano esse asiatiche, islamiche o europee. Con Disneyland a Parigi e Tokyo, gli Stati Uniti procedono con successo nella dissoluzione di tutte le culture del mondo». È a queste osservazioni, tuttora utili per comprendere e mappare la nostra contemporaneità, che le successive considerazioni saranno rivolte.
Il liberalismo come dottrina politica e, più in generale, come “visione del mondo” e nucleo dell’immaginario occidentale, fondato sulla libertà individuale illimitata, una prospettiva materialista eimmanentista, un assetto economico liberista e capitalista, un sobrio edonismo piccolo-borghese dal fondamento protestante, è delineato da Thompson in tutto il suo declino. «I liberali sono per la ragione e la libertà d’espressione – nota l’autore –; ma sono anche per il social engineering (ingegneria sociale) e per la terapia comportamentistica che dovrebbe adattare l’individuo alla società tecnologica. La loro visione è quella di un vuoto cosmico nobilitato dalla presenza di tanti professori liberali» (p. 198). Pragmatismo nichilista in veste tecnocratica, insomma.
Stando a Thompson, tuttavia, il liberalismo sta ormai dando molteplici segni di debolezza. Non è più capace di porsi come “immagine-guida”, non riesce ad appassionare le nuove generazioni statunitensi, che all’epoca della stesura del saggio erano state sbalzate nel mondo hippies, trovando in esso una parziale, seppur miope e in fin dei contiinsoddisfacente, prospettiva alternativa: i loro guru le spingevano al rifiuto dei culti laici delle megalopoli e dell’industrializzazione, alla ricerca, on the road, di oasi di senso nel deserto della modernità. L’urbanizzazione selvaggia, telos ultimo della cultura liberale, produce «nonluoghi» (Marc Augé) – ossia simulacri utopistici del radicamento nella terra, del genius loci proprio degli assetti spaziali –, sradica le identità, arrivando a minare persino quella umana. A sostegno della posizione di Thompson possiamo citare Michel Foucault, che parlava, riconoscendone il carattere epocale, di «morte dell’uomo», e Aleksandr Dugin, che nei suoi saggi – Teoria e fenomenologia del Soggetto Radicale su tutti – rinviene nell’appiattimento livellatore del postmoderno la nascita dell’uomo-rizoma, il «post-uomo» calato negli aggregati delle neo-masse. Il comportamentismo positivista, nota sintonicamente Thompson, “scienza” relazionale e psicologica prediletta dai liberali, mira a ridurre la complessità umana, tramite un barbaro riduzionismo, a meccanismi deterministi di stimolo e risposta: l’istituto di eccellenza M.I.T. può essere così interpretato come una cattedrale secolarizzata di questa fede scientista.
Merito del saggio è proprio quello di riconoscere l’atmosfera di famiglia che caratterizza i fenomeni citati – e di molti altri di cui Thompson ricostruisce con acume la fenomenologia – e collocarli nella medesima Weltanschauung, quella di matrice liberale appunto. A mezzo secolo di distanza dalla sua pubblicazione, riconoscere i limiti di questo orientamento e, oggi, il suo potenziale tracollo, più che un auspicio sembra essere una constatazione di buon senso.
Spesso associato al liberalismo, ma ancor più pervicacemente diffuso, in quanto radicato pure in orientamenti affatto liberali – il marxismo su tutti –, il progressismo è, stando a Thompson, l’altra grande gabbia pregiudiziale dell’Occidente. Limite cognitivo, gnoseologico, prim’ancora che socio-politico, il progressismo, «il mito più falso di tutti i veri e propri miti della nostra storia» (p. 126), ha fallito sotto ogni riguardo, producendo danni assai visibili nel suo tentativo d’imporre un’accelerazione temporale verso quella “fine della storia” che taluni hanno teorizzato realizzarsi in un futuro a noi prossimo. La rivoluzione, anziché tensione conservatrice verso la riproposizione, in nuove forme, dell’Origine – come insegna l’etimologia di revolvere – è assurta, nella visione progressista, ad accelerazione estrema della temporalità verso il futuro, a consunzione dell’hic et nunc – l’unico tempo, quello dell’istante, capace di abbracciare l’eterno –, a proiezione “obbligata” verso le «magnifiche sorti e progressive» stigmatizzate da Leopardi. Eppure questa fine, in fondo, non si cogliemai. Perché, come bene ha illustrato Massimo Cacciari nel suo recente saggio su Max Weber, Il lavoro dello spirito (Adelphi, Milano 2020),«tale “fine” non ha luogo che nell’accelerazione dei tempi, non nella fine del tempo! Il tempo della fine della storia è quello della accelerazione senza fine, dell’in-finito procedere, della vittoria definitiva del divenire su ogni “sostanza”».
All’orlo della storia si scorge l’intera crisi della modernità razionalista e progressista: incede, oggi, l’indifferenziazione della postmodernità. Qui la tensione teleologica verso il Paradiso terrestre si disgrega nella pluralità simultanea del virtuale, nella delocalizzazione ontologica in cui il non-senso e il senso supremo vengono a coincidere. Si attua cosìuna paradossale riscoperta di quel presente di cui si diceva, che vienenegato nella sua profondità assiale ma rivalorizzato come porzione storica condivisa dalla singola comunità neo-tribale di appartenenza:«Si vive – spiega Thompson – in ghetti generazionali» (p. 40), segmenti temporali discontinui, privi di trasmissione verticale (con il passato) e orizzontale (con le altre comunità di appartenenza).
In questa condizione, la lettura di Thompson ci invita a seppellire le moderne ideologie, ormai cadaveriche, e a fronteggiare – o almeno a tentare di comprendere – gli assetti del nuovo millennio. Se pure ilprototipo progressista, «l’ingegnere, sia egli capitalista o comunista, è stato addestrato al successo, non al fallimento, e continuerà ad agire e a comportarsi come gli è stato inculcato», non tutto è perduto: «Poiché ogni epoca è il rovescio della precedente», Thompson intende «sperare che sulle ceneri della vecchia tecnologia possa sorgere una nuova scienza whiteheadiana» (p. 115). La soluzione, insomma, non è il neo-luddismo, ma il superamento della cecità scientista in un nuovo paradigma capace di conciliare il soddisfacimento della natura verticale e multidimensionale dell’uomo con lo sviluppo tecnologico.Certo è che nel mondo post-industriale, post-umano, post-storico, globalizzato, non sarà Auguste Comte a dettare la linea. Le irradiazioni dell’avvenire si manifestano altrove.