“Ubik” non è narrativa. (Philip K. Dick, Esegesi)
1. Non si fanno film su Ubik
È un peccato che non sia mai stato realizzato un film su Ubik, il capolavoro di Philip K. Dick dato alle stampe nel 1969. A dire il vero, se n’era interessato nel 1974 il regista Jean-Pierre Gorin (antico collaboratore di Godard), ma il progetto non ebbe seguito. Non era di certo il primo: agli inizi degli anni Settanta, l’editore parigino di Dick, Patrice Duvic, delle edizioni Opta, gli aveva proposto di farne uno sceneggiato per la televisione – progetto ugualmente abortito.
Tra l’altro, quello tra Phil e il cinema è un rapporto storicamente abbastanza complicato. Solo negli ultimi tempi le produzioni seriali hanno realizzato opere all’altezza degli originali: è il caso della serie The Man in the High Castle (Amazon, 2015-2019), ispirata al celeberrimo La svastica sul sole (1962), e Philip K. Dick’s Electric Dreams (Channel 4, 2017), basata su dieci racconti dickiani, per poi non parlare di quelle serie tv che, pur non citando direttamente il Nostro, ne resuscitano le atmosfere in modo assai raffinato – come accade, ad esempio, nell’imperdibile Black Mirror (Sky Cinema, 2011-2019). Ma non è sempre andata così: negli anni precedenti, a parte l’immortale Blade Runner (Ridley Scott, 1982; trascurabilissimo il sequel) e, benché in misura minore, Minority Report (Steven Spielberg, 2002), il cinema non ha saputo, per così dire, mettersi sulle stesse frequenze dello scrittore americano, collezionando di fatto una serie di insuccessi. Vedere per credere.
La questione è che l’universo – narrativo e meta-narrativo – di Dick non è sempre facile da rappresentare. Un discorso che, a maggior ragione, vale per il romanzo cui è dedicato questo saggio, nel quale è illustrato un mondo che, per quanto piuttosto familiare a tutti noi, attende ancora di essere “metabolizzato”. È, di fatto, quello in cui ci troviamo, il mondo postmoderno, che per inerzia mentale o pigrizia intellettuale continuiamo indefessi a leggere usando vecchie categorie, preferendo essere contemporanei del passato e non del futuro1. La postmodernità non è una teoria – ma la realtà. Dobbiamo farcene una ragione. Solo allora comprenderemo che se non capiamo Ubik è perché non capiamo il mondo in cui viviamo. Se non riusciamo a rappresentarlo, è perché non riusciamo a rappresentare nemmeno il nostro qui e ora. È un problema nostro, e di nessun altro2.
È un contesto all’interno del quale il “principio di realtà”, tanto celebrato dalla modernità, ha dichiarato definitivamente bancarotta. Il cosiddetto “reale” è smembrato in vari piani, ognuno dei quali ha una propria coerenza, forma un “tutto”, dispone di propri sistemi spazio-temporali, di un alto e un basso, un “prima” e un “dopo”, una “storia” e una “geografia”, e così via. Il cosmo altro non è se non la giustapposizione di questi piani, irriducibili gli uni agli altri, contigui ma irrimediabilmente impermeabili. E ognuno di questi piani è presieduto da un processo mentale, è il prodotto dell’attività di una mente, che agisce attivamente sulla materia, operando temporalizzazioni dello spazio e spazializzazioni del tempo, nonché generando ininterrottamente piani ontici. Nulla è al riparo da questa fitta rete di programmazione e riprogrammazione psichica. In Ubik, ha scritto Lawrence Sutin, «Phil tagliuzza minuscole crepe nello spazio e nel tempo finché la società umana – e il mondo stesso – non cadono a pezzi»3. È la postmodernità, come già accennato. Rifiutarne la realtà non ci salverà dalle sue spire. È forse più interessante – di certo, più divertente – conoscerne le dinamiche, studiare le regole del (suo) gioco.
2. Psiche, téchne e thanatos
Ma quali sono gli elementi fondamentali di quello che è e rimane, a parere di chi scrive, il miglior romanzo di Philip K. Dick?
Nel mondo di Ubik, tanto per cominciare, a dominare è una tecnologia molto avanzata che si serve e sfrutta i poteri cognitivi. Le sue pagine sono il teatro di un’ininterrotta lotta tra i precog 4, che prevedono configurazioni del futuro nell’ottica di influenzarlo o correggerlo, e gli “inerziali” anti-precog, che anticipano l’attività dei primi, di fatto annullandola (il titolo originale del libro, tra l’altro, era Death of an Anti-Watcher). Sono tutte manipolazioni magiche della realtà, messe in atto tramite un potente connubio – post-moderno, ma ben più antico – di mente e tecnica. Del “principio di realtà” non c’è più traccia; è stato dissolto dal combinato disposto di configurazioni e anti-configurazioni psichiche. È un mondo in cui è possibile, tramite un adeguato training mentale, tornare indietro nel tempo e scegliere linee cronologiche alternative5, manipolando le conformazioni fantasmatiche della realtà e dunque la realtà, come insegna la magia rinascimentale6, affrontando in modo inaspettato i borgesiani sentieri che si biforcano7. “Realtà” e “racconto della realtà” si eclissano l’uno nell’altra – dove trionfa la tecnologia risorge la creazione mitopoietica. Il mondo non si dà più in sé, ma solo entro una narrazione fondamentale – ed è dall’agone tra queste narrazioni che nasce la cosiddetta “storia”. Archeofuturismo allo stato puro.
Questo Impero della Mente, comunione di istanze magiche e tecniche d’avanguardia, domina su tutto, condizionando la vita… ma non solo. In Ubik la morte è prolungata indefinitamente nei Moratorium, non-luoghi in cui i moribondi vengono tenuti in uno stato di semi-vita. In sostanza, giacciono sospesi artificialmente tra essere e non-essere, venendo risvegliati di tanto in tanto, giusto il tempo di scambiare quattro chiacchiere con i vivi. Questa condizione innaturale, basata sulla riduzione al minimo delle funzioni vitali, può durare addirittura secoli.
Lo stato intermedio in cui vivono ricorda quello descritto nel Libro tibetano dei morti8. Il paragone non è azzardato: l’autore de La svastica sul sole conosceva bene il Bardo Thödol, avendolo letto e riletto nel corso degli anni (in particolare, possedeva l’edizione americana del 1960, con un’introduzione di Carl Gustav Jung, prefatore anche della versione dell’I Ching in possesso di Dick)9. Nel mondo tradizionale, il testo veniva letto al moribondo negli ultimi istanti della sua vita, prima che prendesse definitivamente congedo dalla propria esistenza terrena, affinché potesse affrontare il successivo “stato intermedio” (bardo), senza scambiarlo per una realtà in sé ma come un intervallo tra morte e rinascita. Ebbene, il protagonista del romanzo, Glen Runciter, fa leggere il Libro tibetano dei morti a sua moglie Ella, mentre la vede scivolare nell’oblio del Moratorium, nella semi-oscurità di uno stato che non è né vita né, in senso stretto, morte.
Ma i sonni nel Moratorium non sono affatto tranquilli. Anche questi luoghi – come tutti i luoghi, d’altronde – sono provincie dell’Impero della Mente. Nella premorte, ogni semi-defunto vive in una realtà plasmata dalla propria attività psichica. Se quest’ultima è particolarmente forte, può addirittura generare un “campo” capace di attrarre nella propria orbita altri “ospiti”, dalle volontà più deboli. L’attività degli intelletti più potenti, in altre parole, finisce per alterare i mondi altrui, operando distorsioni spazio-temporali oniriche: «Un sacco di sogni non riguardano affatto me» confessa Ella Runciter, risvegliata dal marito10. Si scopre a sognare cose che non ha mai visto, situazioni in cui non si è mai trovata, uomini che non ha mai incontrato, lingue che non ha mai parlato né udito: è come se fosse sognata da qualcun altro o qualcos’altro, un ennesimo semi-vivo, che giace in una cella accanto alla sua. Una situazione ben descritta dal mellifluo direttore del Moratorium, Herbert Schoenheit von Vogelsang (letteralmente, “la bellezza del canto degli uccelli”), che dice a Runciter: «Dopo una prossimità prolungata […] ci può essere una mutua osmosi, una suffusione tra le mentalità dei semivivi»11. Una reciproca contaminazione che, come emerge nel corso della storia, dà luogo a un’autentica psicomachia, un’ininterrotta lotta tra forze mentali, ognuna delle quali intende influenzare le altre, catapultandole nel proprio sistema di riferimento. A vincere è quella più forte – in certi casi, la più giovane –, che di fatto altera il continuum spazio-temporale, allucinandolo e facendo passare questa allucinazione per una realtà condivisa12.
3. Multiversum
Questo è in sintesi lo scenario di Ubik, al cui interno agisce Glen Runciter, capo di un’azienda che “affitta” inerziali, uomini e donne capaci di annullare l’effetto dei precog. Ma l’equilibrio viene ben presto alterato da un attentato, messo a punto sulla Luna ai danni dello staff di Runciter da un concorrente; lui muore (viene subito portato in “rianimazione” al Moratorium, accanto a sua moglie, dove lo attenderanno secoli di non-vita) ma la squadra gli sopravvive, cominciando a vagare per la Terra alla ricerca del colpevole – o in fuga da esso.
Ma… qualcosa non quadra. Dopo l’evento traumatico i personaggi si accorgono che il mondo, per così dire, non è più quello di prima. Si verificano piccole alterazioni nel tessuto del reale, che da impercettibili si fanno sempre più evidenti, fino a condizionare le loro vite. Dapprima, assistono stupiti a un precoce invecchiamento che coinvolge tanto gli oggetti che maneggiano (le sigarette appena comprate si sbriciolano, la panna nel caffè appena versato risulta inacidita, come se fosse nella tazzina da dieci anni) quanto loro stessi, con conseguenze terribili, che portano alla morte parecchi “inerziali”. Parallelamente, le monete di cui si servono cambiano repentinamente effige, risultando così inutilizzabili, ridotte a oggetti dall’interesse numismatico. Il profilo che appare sugli spiccioli… è quello di Runciter, agonizzante dall’altra parte dell’oceano. È come se il reale subisse incursioni dall’Esterno, da un Altrove che nessuno dei personaggi, ahinoi, riesce a identificare.
Il processo, inarrestabile, è sempre più convulso. Al suo culmine, nei luoghi più impensabili – sulle bombolette spray, nei bagni pubblici, sulle etichette dei prodotti comprati dai personaggi – compaiono dei messaggi, rivolti a loro e solo a loro; nei telefoni e videofoni fa capolino la voce di qualcuno che dovrebbe essere morto, o quantomeno in rianimazione. È sempre lui, Glen Runciter, che parla con toni enigmatici, assegnando loro una serie di compiti. Fino al messaggio definitivo, che segna un ribaltamento teatrale della situazione: «Io sono vivo, voi siete morti». Questa frase evocativa, che Emmanuel Carrère ha scelto per titolare la sua biografia di Dick (detto tra noi, la migliore mai uscita e forse il miglior libro di Carrère)13, è la quintessenza di Ubik.
Sono loro, insomma, a giacere nel Moratorium, mentre Runciter è l’unico sopravvissuto all’esplosione; le alterazioni che percepiscono sono il frutto dei suoi interventi nel loro stato sonnambulico. Insomma, è il “sognante” che prova a mettersi in comunicazione con i “sognati”. Ma nemmeno in questo caso la spiegazione è così semplice.
Sul fatto che la realtà sia alterata, e lo sia soprattutto da un punto di vista temporale, non c’è dubbio. Ma chi l’ha detto che è all’opera una sola forza perturbatrice? Da un lato, il reale si usura, torna indietro. Dall’altro, le monete cominciano a esibire il profilo di Glen Runciter, anticipando una realtà nuova, a venire.
Sotto il fuoco congiunto di passato e futuro finisce il presente, l’esserci, il qui e ora – in una parola, la vita. Una volta uno studente chiese a William Burroughs se credesse alla vita post mortem. L’autore del Pasto nudo rispose: «Come fa a sapere di non essere già morto?». In questa risposta c’è tutto Ubik, tutto Philip K. Dick, tutto il nostro tempo.
4. Non-Essere e Tempo
Questo, riassumendo, è il duplice contenuto della rivelazione. Anzitutto, coloro che si pensavano vivi sono morti. In secondo luogo, i processi che si svolgono nella “realtà alterata” provengono da fonti diverse.
Per la precisione, alcuni spingono il tempo a ritroso; altri, invece, annunciano una realtà prossima ventura. «Uno è un processo di fuoriuscita, per così dire. Un uscir-fuori-dall’esistenza» dice una delle protagoniste. «Il processo è un venire-all’esistenza. Ma riguarda qualcosa che non è mai esistito prima»14. La realtà di Ubik non è data una volta per tutte, ma si trova dilaniata da queste due forze contrastanti, una “passatista” e l’altra “futurista”, una che intende annichilire l’esistente, ripristinando stadi precedenti della materia, l’altra che rende presente una configurazione futura. Così, mentre la storia accelera sotto il dominio di Runciter, l’alterazione «riporta in superficie fasi passate della realtà. Entro la fine della settimana potremmo svegliarci e trovare antichi tram sferraglianti che percorrono la Fifth Avenue»15.
L’effetto della prima forza agisce anche sui personaggi, provocando vertigini perturbanti, generalmente accompagnate da una sensazione di freddo. È il gelo che gli “inerziali” di Runciter stanno provando nel mondo “reale” (si fa per dire…), incapsulati nei loro sarcofaghi termici al Moratorium, sotto gli occhi del loro capo. Così uno dei membri della compagnia percepisce questa forza su di sé: «Il freddo penetrava nelle innumerevoli ferite aperte, giù, fino al cuore delle cose, il nucleo che le rendeva vive». Pian piano la dimensione in cui si trova si disgrega, cedendo il passo a un paesaggio ben diverso: «Un deserto di ghiaccio da cui spiccavano massi aguzzi. Un vento soffiava per la pianura in cui si era trasformata la realtà; il vento congelava in uno strato di ghiaccio sempre più spesso, e i massi per lo più scomparivano». Al tempo stesso, è consapevole che questo mutamento ha luogo solo in se stesso. Comprende che il conflitto tra le due dimensioni si svolge in illo pectore: «Non è l’universo che viene seppellito sotto strati di vento, freddo, oscurità e ghiaccio; tutto questo sta accadendo dentro di me»16. Ebbene, lo sfaldarsi della realtà è uno dei primi sintomi che rivelano la premorte artificiale su cui si fonda Ubik, distopia psichica e multiverso esistenziale.
A ben vedere, tuttavia, la contrapposizione tra le due forze temporali citate non è, per così dire, “frontale”. Non sono due vettori di senso opposto collocati su un’unica linea retta, quanto piuttosto due temporalità differenti. Qualitativamente differenti. Dick trasmetterà questa sua intuizione il 13 febbraio 1975 a Claudia Bush, una giovane studentessa che si stava laureando sulla sua narrativa: «La scoperta scientifica fondamentale della mia ampia metafisica […] è il mio postulato di due tempi ad angolo retto fra di loro, che ho chiamato verticale (quello che normalmente percepiamo) e orizzontale, che è l’asse lungo il quale gli oggetti in Ubik regrediscono»17. Qui Dick la fa finita, una volta per tutte, con la temporalità lineare e vettoriale del giudeo-cristianesimo e di tutte le teologie politiche della modernità18, orientandosi piuttosto verso una concezione temporale che definisce lui stesso «ortogonale». Essa taglia verticalmente quella ordinaria, andando a intercettare le teorie sulla Quarta Dimensione19, in cui il tempo procede contemporaneamente avanti e indietro. Altrove Dick noterà, secondo lo stesso ordine di idee: «L’asse del tempo ortogonale può essere stato introdotto in Ubik senza che io comprendessi realmente quel che stavo descrivendo – cioè, la regressione formale degli oggetti secondo una linea tutta diversa da quella seguita lungo il tempo lineare»20.
Il tempo ortogonale è la chiave di volta, il tertium che permette di sfuggire all’azione congiunta delle due forze ed entrare nella tana del Bianconiglio. Non si tratta di optare per un tempo o per l’altro, ma di saper agire in entrambi, muovendosi in modo trasversale dall’uno all’altro, non ponendosi nemmeno il problema di quale sia vero e quale sia falso, di quale sia l’originale e quale il simulacro21. Chi padroneggia questo tesseratto dimensionale – annoterà Dick nei suoi diari, magma vulcanico di un daimon tanto potente quanto debordante – è Signore del Tempo, padrone della «temporalità cubica, vista simultaneamente in entrambi gli assi; […] cioè, il tempo che si muove in due direzioni (dimensioni) alla volta»22. Se le cose stanno così, il tempo viene percepito come destrutturazione ontologica solo da chi si ferma a una delle due dimensioni.
Nella spazializzazione del tempo (la stessa che, in ambito cinematografico, troviamo nel recente Tenet di Christopher Nolan) risiede l’enigma di Ubik, che poi è l’enigma della nostra contemporaneità. È il tentativo di rappresentare «il tempo spazialmente e il passato come spazialmente dentro – letteralmente dentro – il presente»23. In questo senso, lo stesso principio di Ubik, su cui torneremo ben presto, agisce come «una sorta di Logos che si muove avanti e indietro nel tempo, per donare conoscenza e salvezza»24.
5. Giochi mentali
Torniamo, ma solo per un istante, al Bardo Thödol, di cui abbiamo già parlato. «Ho scritto Ubik» annota Dick nei suoi diari, «dopo aver letto Il libro tibetano dei morti, in cui viene esposta la nostra vera situazione: il Grande Segreto»25. Di che “segreto” si tratta? E qual è la “nostra vera situazione”?
Cominciamo dal secondo quesito: la situazione cosmico-storica in cui ci troviamo è il mondo postmoderno, che ha dissolto il principio di realtà e gli altri caposaldi della modernità; per leggerlo, continuiamo ad appellarci a ideologie antiquate, ormai fuori tempo massimo. Siamo come i protagonisti di Ubik, che sono entrati in questo stadio senza rendersene conto, «morti che sognano in uno stato di decomposizione psichica»26.
Quanto al Grande Segreto, è appunto quello relativo allo stadio intermedio (bardo): è il principio secondo cui il “reale” che frequentiamo tutti i santi giorni è una proiezione del nostro Io, uno pseudo-mondo che non esiste “in sé” ma è una maschera nostra e solo nostra.
La trasformazione della realtà “oggettiva” in proiezione dell’Io comporta varie possibilità. Anzitutto, l’idea che, come scriveva Colin Wilson (un autore che andrebbe letto insieme a Dick), «la storia è una congiura»27, un accordo stipulato tra una pluralità irriducibile di forze che danno origine a un piano alterato, che chiamiamo “epoca”, “secolo” e così via. In questo senso, è una sequela di paradigmi (Thomas Kuhn)28 irriducibili gli uni agli altri, ognuno dei quali esercita una propria influenza sul presente, sul passato e sul futuro, riscrivendoli di continuo, decomponendoli e ricomponendoli dinamicamente. Philip K. Dick adotterà questo principio scrivendo La svastica sul sole, basandosi sugli studi di Hannah Arendt, secondo cui il quid delle dittature risiede nell’elaborazione di un autentico universo parallelo29.
Ma questa visione contiene anche la possibilità – previo opportuno allenamento, ovviamente – di interagire con il mondo, plasmandolo in modo demiurgico, opponendo a una “narrazione” non un supposto “principio di realtà”, ma un’altra “narrazione”; anzi, una “meta-narrazione” fondamentale. È quel che fanno i personaggi del romanzo, provando a rallentare il processo di invecchiamento attraverso uno sforzo mentale congiunto – in alcuni casi, con successo. Di fronte a una realtà cangiante e obliqua, all’uomo è richiesto uno sforzo psichico inaudito: «Come in Ubik noi dobbiamo mantenere il presente con una focalizzazione congiunta di sforzo e attenzione, costringendolo a essere stabile (e non a regredire)»30. La realtà va costretta mentalmente alla stabilità, dominata e orientata sub specie interioritatis. Quello che crediamo essere il “mondo reale”, in questo senso, è il prodotto di un gioco mentale, di un mindgame.
Le pedine di questo gioco sono i messaggi che raggiungono i personaggi, spesso “camuffati” – per dirla con Mircea Eliade, che Dick leggeva – nei bassifondi, nella spazzatura. Anzi, da un certo punto di vista potremmo intendere il cosmo intero come un unico monumentale camuffamento dell’absconditus “principio Ubik”: «Solo se sceglie di rivelarsi (teofania) può essere individuato come unità senziente»31.
Prima di procedere, vorrei aprire una piccola parentesi. Giochi mentali (per la precisione, Jocurile minții) è il titolo di una raccolta postuma32 degli scritti dell’“ultimo” Ioan Petru Culianu, secondo la definizione di Horia-Roman Patapievici33. Quest’antologia contiene gli scritti più rivoluzionari firmati dal precoce allievo di Mircea Eliade, la cui brillante carriera intellettuale fu stroncata da un colpo di pistola nel maggio 1991, nei bagni dell’Università di Chicago.
Ebbene, alcuni di questi saggi affrontano tematiche analoghe a quelle sviluppate in Ubik. Ne citerò uno solo, intitolato System and History, pubblicato sulle colonne della rivista «Incognita. International Journal for Cognitive Studies in the Humanities», fondata dallo stesso Culianu. Così recita la sua conclusione (la traduzione è di Roberta Moretti): «La mente ha i suoi peculiari percorsi da seguire. Il risultato dei processi mentali consiste in sistemi di pensiero, cioè sistemi che derivano dalle medesime premesse di base ed esistono nella dimensione logica, che non è identica alla storia umana. Interagiscono con la storia in ogni momento e la sequenza cronologica che formano è una specie di puzzle sequenziale». Culianu prosegue, ricordando l’episodio della forchetta di Flatlandia (1884), romanzo del reverendo Edwin Abbott Abbott34, che descrive l’irruzione di un oggetto tridimensionale in un mondo che di dimensioni ne ha due. In base a queste premesse, argomenta Culianu, occorre «studiare i sistemi di pensiero nella loro dimensione, riconoscendo la forchetta per ciò che è: un oggetto giunto dall’esterno, che oltrepassa il nostro spazio in modo apparentemente sconnesso e ha una logica nascosta che possiamo rivelare solo se riusciamo a uscire dal nostro spazio». Fino alla conclusione, del tutto dickiana: «In altri termini, la storia è un incredibile e complesso prodotto sequenziale di un’interazione su larga scala di sistemi di pensiero non sequenziali»35.
Le stesse tesi Culianu sostenne nel corso di un’intervista con Emanuela Guano, rilasciata ad Arezzo agli inizi degli anni Novanta, dopo un seminario organizzato da Grazia Marchianò: «La storia è un processo d’infinita complessità, in cui degli oggetti invisibili concorrono a formare un insieme totalmente imponderabile. Questi oggetti invisibili sono le menti umane, veri e propri schemi tridimensionali su cui le percezioni innescano una rappresentazione del mondo circostante. Per studiare i sistemi di idee è necessario abbattere le barriere tra il visibile e l’invisibile, tra l’interno e l’esterno: solo così si può arrivare a capire i meccanismi della mente umana»36. Lo stesso orizzonte concettuale.
6. Manipolazioni e manipolatori
La storia è quindi un prodotto della mente. D’accordo, ma di quale mente? O, per dirla con Culianu, di quante menti? Da quali combinazioni sorge? Questa è la domanda a cui ci conduce Ubik, «farsa patafisica»37 e grande fiaba postmoderna.
Per rispondere ci viene in soccorso la visione temporale cui si è accennato prima, vale a dire «il modello tipo “menabò” della realtà, un modello laminato dei continua temporali»38, dove i piani vengono emanati circolarmente a livello entropico, per poi essere interpretati e manipolati – in base alla psicomachia di cui sopra – da un punto di vista ortogonale, secondo uno schema irradiante che li taglia tutti, attraversandoli perpendicolarmente.
Si tratta di una dottrina che, lungi dall’essere meramente speculativa, in Ubik è anzitutto pratico-soteriologica, vincolata cioè alla possibilità di manipolare attivamente le cose liberandosi dal loro giogo, opponendo al fantasma della realtà un altro fantasma (Ficino), forgiato dall’operatore: «L’asse temporale dell’universo, quando visto propriamente come spaziale, consiste di questi infiniti numeri di strati sottilissimi sovrapposti. Per ogni entità che vede correttamente il tempo come quest’asse spaziale di sequenza (strati) e crescita, è possibile muoversi “all’indietro nel tempo” o, più precisamente, giù attraverso gli strati»39. Il tempo è dunque il medium che consente di spostarsi lungo questi piani dell’essere, in senso ascendente o discendente (ché in fondo è il medesimo, come recita un’antica sapienza che percorre la storia della cultura occidentale, da Eraclito a Goethe), percorrendo le due vie incarnate simbolicamente dai serpenti arrotolati lungo il bastone di Esculapio40.
È significativo il fatto che questi princìpi ritornino in un romanzo il cui orizzonte è del tutto postmoderno. Al tempo stesso, infatti, le peripezie affrontate dagli “inerziali” di Runciter sono l’inveramento della profezia formulata da Heidegger nel suo celebre Saggio sulla tecnica, dove il filosofo parla dei pericoli destinali connessi alla diffusione planetaria della tecnica. Questi pericoli sono due: il primo vede la riduzione dell’uomo a “fondo” (Bestand) e strumento da impiegare, un ente tra gli altri. Ma si tratta di un pericolo complementare a un altro: «E tuttavia» scrive Heidegger, «proprio quando è sotto questa minaccia l’uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l’apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell’uomo». Nel dispiegarsi totalizzante della tecnica sorge l’illusione, insomma, che «l’uomo, dovunque, non incontri più altri che se stesso»41. Esattamente come accade a Runciter in Ubik.
Heidegger pronunciò queste parole nel 1953, nel corso di una conferenza internazionale dedicata a Le arti nell’età della tecnica. Al simposio – cui presero parte, tra gli altri, Romano Guardini, Emil Preetorius e Friedrich Georg Jünger, fratello di Ernst – parlò anche Werner Heisenberg, che disse qualcosa di analogo, sostenendo che «l’affermazione secondo cui l’uomo sta ormai di fronte solo a se stesso vale nell’età della tecnica anche in un senso molto più ampio». Nel panorama della scienza moderna, l’uomo non si confronta più con la realtà “in sé”, ma sempre e solo con l’immagine che ha di questa realtà: «Anche nella scienza della natura, oggetto della ricerca, non è più la natura in sé ma la natura esposta al modo umano di porre la questione; per questo l’uomo incontra di nuovo, anche in questo caso, solo se stesso»42.
L’ineluttabilità gnoseologica di questo processo fu colta anche dal filosofo neokantiano Ernst Cassirer, che nella sua Philosophie der symbolischen Formen (1923-1929) propose di definire l’uomo come animal symbolicom più che come animal rationale. L’uomo, secondo Cassirer, è un essere che colloca il linguaggio tra sé e il reale, di modo che, a lungo andare, non vede più il reale stesso, finendo per intrattenere un ininterrotto soliloquio, dialogando solo con le griglie ermeneutiche che pone tra sé e le cose43. È, in fin dei conti, la stessa prospettiva che muove il teorico del principio d’indeterminazione.
Ebbene, Heidegger risponde a Heisenberg, da un lato rimarcando come questo impasse non sia un “incidente di percorso” ma l’esito destinale del cammino speculativo occidentale, dall’altro insistendo sul fatto che questo ritrovarsi da tutte le parti finisce, in sostanza, per dissolvere completamente la nozione di uomo: «In realtà, tuttavia, proprio se stesso l’uomo di oggi non incontra più in nessun luogo; non incontra più, cioè, la propria essenza»44.
Per mezzo della visione del mondo promossa e veicolata dalla tecnica moderna, l’uomo è letteralmente ovunque e da nessuna parte. Tale corto circuito dà i natali a una dimensione fantasmatica dove si celebra l’onnipotenza di un uomo che ha perso il proprio centro (Hans Sedlmayr) e, al tempo stesso, incontra ovunque i propri simulacri. È il “mondo nuovo” di Ubik, appunto, in cui Runciter è in ogni dove – sulle monete, sugli involucri, sulle pubblicità – ma è lontano, irrimediabilmente lontano.
7. La bibbia del postmoderno
In generale, si può prendere più o meno sul serio il modo in cui un autore si confronta con la propria opera. In particolare, nel caso di Phil K. qualche dubbio può venire. Ma la realtà è che Dick credeva nella forza rappresentata in Ubik. E non è un modo di dire.
Ai suoi occhi, lo stesso libro era un prodotto di quella forza; un gioco di autocreazione che coinvolgeva il libro stesso, il lettore – bombardato dalle frasi pubblicitarie in esergo a ogni capitolo – ma anche lo stesso autore, il quale, nei suoi diari, propose di cambiare la dicitura «Ubik, di Philip K. Dick» in «Philip K. Dick, di Ubik»45. Il romanzo, suggeriva, si sarebbe scritto attraverso di lui, usandolo come mezzo inconsapevole per fare irruzione nella realtà.
Si tratta di un dispositivo che genera se stesso, combinando e ricombinando possibilità e attualità: da un certo punto di vista, nota Dick, gli è stato possibile scrivere il romanzo solo a condizione che le informazioni contenutevi fossero vere. Può apparire un tantino tautologico ma, dal momento che la spiegazione dei contenuti di Ubik si trova in Ubik stesso, ciò prova la sua stessa veridicità. Stando così le cose, «“Ubik” ha scritto Ubik, il che rende il romanzo una forma di testo sacro»46. Fate attenzione: Dick distingue qui il romanzo (Ubik) dal principio che contiene (“Ubik”), ben più antico – che, tra le altre cose, ha consentito la sua scrittura materiale. Insomma, “Ubik” è la condizione di esistenza di Ubik. “Ubik” è la condizione di esistenza di Phil K. Dick. Non è nemmeno da escludersi che “Ubik” sia la condizione di esistenza di queste righe.
Ma cos’è Ubik? Nell’universo dei nostri protagonisti, è la sostanza che rallenta l’invecchiamento delle cose. Si presenta come una bomboletta, ma tecnicamente – nomen omen – può essere qualsiasi cosa. Se spruzzata sugli oggetti e sugli uomini che abitano il sistema di riferimento del romanzo, ritarda la decadenza. Dal punto di vista dei protagonisti (cioè, “ortogonale”) è una sorta di katechon, un agente frenante47 che ostacola la dissoluzione psichico-entropica del mondo. Ma, in realtà, è l’intrusione di un’altra mente ancora, decisa a combattere l’energia che determina le ascisse e ordinate del qui e ora. Così viene presentato ai nostri protagonisti da una ragazza, che in realtà è Ella Runciter. In stato di premorte, interviene attivamente nel campo pseudo-esperienziale (ma “pseudo” rispetto a cosa?) degli “inerziali”: «Grazie alle tecniche più avanzate della scienza moderna, la regressione della materia alle forme precedenti può essere invertita»48. Non si tratta di una forza “assoluta”, per così dire, ma di un’energia opposta all’entropia. Agli occhi stupefatti di Dick, che vedeva materializzarsi in Ubik il principio “Ubik”, quella sostanza – ha scritto il già citato Carrère – non rappresentava «le pillole capaci di ristabilire la sua padronanza sulle cose, ma, in maniera molto più profonda, la potenza salvatrice che ci strappa alle morse dell’entropia, alla malvagità del demiurgo, alla morte»49. Se il katechon è una forza che si limita ad arrestare la decadenza del reale, “Ubik” (il principio, non il romanzo) lo fa unicamente per imporre il proprio dominio. Potremmo definirlo un’ars combinatoria generatrice di forme, opposta a una forza che le forme le dissolve.
«In Ubik c’è un principio scientifico che credevo essere una finzione, ma che è invece una nuova scoperta, o più probabilmente una riscoperta di qualcosa scartato tanto tempo fa» scrive Dick nei suoi magmatici diari. «Ubik dovrebbe grosso modo corrispondere alla Mente universale citata da Virgilio. Non solo anima l’universo e lo fa funzionare, ma poiché ognuno di noi è un pezzo dell’universo […], ognuno di noi ha dentro di sé una scintilla di quell’ordine universale. Gli orfici in Grecia furono il primo gruppo conosciuto a esprimere quest’idea, e l’intero gruppo di culti misterici stava cercando di trovare il modo di tirar fuori o quantomeno di entrare in contatto con questa scintilla interiore di divinità»50.
Una via antichissima declinata nell’hic et nunc, insomma, nella realtà spaesante di un postmoderno che chiede di essere indagato e interrogato, affinché anche nella peggiore delle distopie – e non credo possa essercene una peggiore di quella che stiamo vivendo – possa sopravvivere la memoria dell’Essere.
In Ubik, gennaio 1967
Note:
1 Così recita il celebre ammonimento – ovviamente, inascoltato – di Louis Pauwels e Bergier, manifesto programmatico de Il mattino dei maghi. Introduzione al realismo fantastico (ed. it.: Mondadori, Milano 2014, tr. di Pietro Lazzaro).
2 Per un’interpretazione del postmoderno in linea con queste riflessioni cfr., tra gli altri, Alain de Benoist, Le sfide della postmodernità. Sguardi sul terzo millennio, tr. di Giuseppe Giaccio e Marco Tarchi, Arianna, Bologna 2003; Aleksandr Dugin, Teoria e fenomenologia del Soggetto Radicale, a cura di Francesco Marotta, Andrea Scarabelli e Luca Siniscalco, Aga, Milano 2019.
3 Lawrence Sutin, Divine invasioni. La vita di Philip K. Dick, tr. di Andrea Marti, Fanucci, Roma 2008, p. 205.
4 Questi personaggi, tra l’altro, sono trasposti cinematograficamente nel già citato Minority Report, tratto dall’omonimo racconto dickiano pubblicato nel 1956 sulle colonne di «Fantastic Universe» (ed. it. in Philip K. Dick, Rapporto di minoranza e altri racconti, a cura di Carlo Pagetti, Fanucci, Roma 2004).
5 A parlare è una delle protagoniste di Ubik: «Qualcuno […] poco fa ci ha spostati, tutti noi, in un altro mondo. Noi abbiamo abitato, abbiamo vissuto come cittadini di quel mondo, poi una vasta entità spirituale onnipotente ci ha riportati in questo mondo» (Philip K. Dick, Ubik, tr. di Paolo Prezzavento, Fanucci, Roma 2011, p. 73).
6 Cfr. Ioan Petru Culianu, Eros e magia nel Rinascimento, tr. di Gabriella Ernesti, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
7 Cfr. Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni, tr. di Franco Lucentini, Einaudi, Torino 2007.
8 Cfr. Il libro tibetano dei morti, a cura di Giuseppe Tucci, Utet, Torino 2004.
9 Cfr. Lawrence Sutin, Divine invasioni, cit., p. 205.
10 Philip K. Dick, Ubik, cit., p. 29.
11 Ivi, p. 33.
12 Cfr. Lawrence Sutin, Divine invasioni, cit., p. 133.
13 Cfr. Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti. Un viaggio nella mente di Philip K. Dick, a cura di Simone Bedetti, Hobby&Work, Milano 2006.
14 Philip K. Dick, Ubik, cit., p. 122.
15 Ivi, p. 132.
16 Ivi, pp. 134-135.
17 Philip K. Dick, L’Esegesi, a cura di Pamela Jackson e Jonathan Lethem, Fanucci, Roma 2015, p. 135.
18 In merito a questa visione temporale di origine religiosa, poi secolarizzatasi in tutte le ideologie politiche che coprono la modernità, cfr., tra gli altri, Alain de Benoist, Come si può essere pagani, tr. di Antonino Anzaldi, Settimo Sigillo, Roma 2011; Giorgio Locchi, Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista, Akropolis, Napoli 1982.
19 Sul tema cfr. Rudy Rucker, La quarta dimensione: un viaggio guidato negli universi di ordine superiore, tr. di Giuseppe O. Longo, Adelphi, Milano 2001.
20 Philip K. Dick, Se vi pare che questo mondo sia brutto, tr. di Gianni Pannofino, Feltrinelli, Milano 1999, p. 47.
21 Aspetto centrale nel celebre romanzo dickiano Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, tr. di Riccardo Duranti, Fanucci, Roma 2013.
22 Philip K. Dick, L’Esegesi, cit., p. 148.
23 Ivi, p. 655.
24 Lawrence Sutin, Divine invasioni, cit., p. 291.
25 Philip K. Dick, L’Esegesi, cit., p. 780. [1] Ivi, p. 685.
26 Ivi, p. 685.
27 Colin Wilson, I parassiti della mente, tr. di Alfredo Pollini, Mondadori, Milano 2017, p. 67.
28 Cfr. Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tr. di Adriano Carugo, Einaudi, Torino 2009.
29 Cfr. Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti, cit., p. 84.
30 Philip K. Dick, L’Esegesi, cit., p. 323.
31 Ivi, p. 781.
32 Cfr. Ioan Petru Culianu, Jocurile minții: istoria ideilor, teoria culturii, epistemologie, a cura di Mona Antohi e Sorin Antohi, Polirom, Iași 2019.
33 Cfr. Horia-Roman Patapievici, Ultimul Culianu, Humanitas, București 2010.
34 Ed. it.: Edwin A. Abbott, Flatlandia, tr. di Masolino D’Amico, Adelphi, Milano 1993. Per una ricognizione sugli autori qui trattati e sulle implicazioni delle loro teorie cfr. Roberta Moretti, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius e una misteriosa cospirazione esoterica…, in «Antarès», n. 12, Edizioni Bietti, Milano 2017.
35 Ioan Petru Culianu, Sistema e storia, in Aa. Vv., Ioan Petru Culianu, argonauta della Quarta Dimensione, a cura di Horia Corneliu Cicortaş, Roberta Moretti e Andrea Scarabelli (di prossima pubblicazione per Edizioni Bietti).
36 Emanuela Guano, Storia e sistemi complessi. Intervista a Ioan Petru Culianu, in ibidem.
37 Lawrence Sutin, Divine invasioni, cit., p. 176. Tra l’altro, occorre ricordare che la pubblicazione di Ubik garantì al suo autore l’elezione a membro onorario nel College du Pataphysique.
38 Philip K. Dick, L’Esegesi, cit., p. 489.
39 Ivi, p. 375.
40 Cfr. René Guénon, Il simbolismo della croce, tr. di Pietro Nutrizio, Adelphi, Milano 2012.
41 Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Aa. Vv., Le arti nell’età della tecnica, a cura di Maurizio Guerri, Mimesis, Milano 2001, pp. 58-59.
42 Werner Heisenberg, L’immagine della natura nella fisica contemporanea, in ivi, p. 37.
43 Cfr. Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, tr. di Eraldo Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1987.
44 Martin Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 59.
45 Philip K. Dick, L’Esegesi, cit., pp. 45-46.
46 Ivi, p. 437. Sempre nei suoi diari, scriverà: «È ovvio che il vero autore di Ubik è stato “Ubik”. È un romanzo che dimostra se stesso; cioè, non avrebbe potuto avere origine se non fosse stato vero» (ivi, p. 524).
47 Su questo concetto cfr. Massimo Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.
48 Philip K. Dick, Ubik, cit., p. 225.
49 Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti, cit., p. 178.
50 Philip K. Dick, L’Esegesi, cit., pp. 104-105.
Una risposta su “Psicomachia, multiversum e Impero della Mente. Appunti su «Ubik» di Philip K. Dick”
Bellissimo articolo, se ne trovano pochi così attenti e analitici su questo scrittore, ancora troppo poco conosciuto!
è uscito nel 2020 un film di David Rothery ” Archive” che estrapola da Ubik solo l’idea del Moratorium e dei morti tenuti in vita per poterci parlare al telefono, ma non ho trovato in nessuna scheda sul film un riferimento a Dick. Di questo universo così denso di elementi finisce che poi se ne prenda uno per volta, come una busta di patatine.
Un crimine non riconoscere a fondo un padre del genere, è il Tolkien della fantascienza.