La Rivista Philitt si occupa di letteratura e scienze umane, fondata nel 2013 grazie all’intuizione del giornalista indipendente Matthieu Giroux. Una splendida realtà editoriale che esamina a tutto tondo le questioni cruciali del dibattito filosofico, della letteratura e del cinema. Pubblichiamo l’intervista rilasciata da Alain del Benoist a Benjamin Fayet dal titolo inequivocabile: «Drieu e Jünger erano conservatori rivoluzionari, desiderosi di salvaguardare i valori eterni». Per capire meglio i due autori e per non cadere nelle facili elucubrazioni di una cultura parossistica, inevitabilmente parziale e tendenziosa. Un tipo di “cultura” che si prefigge l’obbiettivo di tagliare i ponti con la cultura europea, imponendo gli schemi teorici del solito riformismo culturale.
Alain de Benoist è uno scrittore e giornalista, teorico della «Nouvellie Droite» (Nuova Destra, NdT), il quale ha partecipato alla fondazione delle riviste Éléments, Nouvelle École e Krisis. La critica alla modernità, all’etnocentrismo, così come la difesa delle autonomie locali, sono il cuore della sua opera particolarmente prolifica (più di 50 opere e 3.000 articoli pubblicati). Ha recentemente pubblicato Ernst Jünger, entre les dieux et les titans (Via Romana), in cui tratta dei legami tra le opere dell’autore di Nelle tempeste di acciaio e Drieu la Rochelle.
Philitt :Ernst Jünger e Drieu la Rochelle, entrambi ex combattenti andati al fronte nel 1914, non possono essere studiati senza un’analisi sul loro rapporto con la guerra. Questa esperienza fondante ha segnato profondamente la loro visione del mondo, così come il loro rapporto con la tecnologia. Opposti l’uno all’altro in prima linea, però, i due uomini hanno sviluppato una visione comune della guerra?
Alain de Benoist : Non c’è dubbio che la Prima Guerra Mondiale abbia segnato Drieu e Jünger in modo indelebile: un’esperienza più esistenziale per Drieu, un’esperienza più interiore per Jünger. In Nelle tempeste di acciaio, Jünger scrive: «Di tutti i momenti eccitanti vissuti durante la guerra, nessuno è così forte come lo scontro tra due squadre d’assalto nelle viscere strette delle posizioni di combattimento». La prova del fuoco di Drieu, avvenuta il 23 agosto 1914, nella pianura di Charleroi, in cui egli stesso ha addestrato molti dei suoi camerati, è rimasta per lui indimenticabile. Ha dichiarato ripetutamente che era stata l’esperienza più forte della sua vita. «Ho provato in quel momento l’unicità della vita. Lo stesso gesto per mangiare e amare, agire e pensare, vivere e morire». In altre parole, si sentì bruscamente in grado, per un breve momento, di riconciliare gli impulsi contraddittori che aveva sempre sentito dentro di sé. Inoltre, Drieu e Jünger si sono perfino battuti a volte nello stesso posto, su un fronte e l’altro della prima linea (ma non allo stesso tempo). E quando partirono per la guerra, sembra che entrambi avessero nelle loro borse una copia dello Zarathustra di Nietzsche.
Va detto che è anche il confronto di ciò che hanno in comune che meglio fa emergere, per contrasto, tutto ciò che li distingue. Mentre Drieu andò al fronte come coscritto, Jünger si arruolò volontario nell’agosto 1914. Due anni prima aveva già tentato di arruolarsi nella Legione Straniera. Sappiamo che il suo impegno, e il suo coraggio, gli faranno guadagnare quattordici ferite e la Croce al merito. Rimase fino alla fine a capo di una sezione d’assalto che non lasciò mai. Drieu non ha preso parte ai combattimenti se non a intermittenza. A Verdun, fu ferito dopo un solo giorno di combattimento, il 26 febbraio 1916, prima di essere evacuato. Stesso discorso per Charleroi, dove, a dicembre, sarà trasferito al servizio ausiliario prima di essere nuovamente evacuato. Non ha ricevuto la Croix de Guerre fino a dopo l’armistizio. In uno dei testi di Sur les («Réflexions sur son œuvre») lo riconobbe lui stesso: al contrario di Erich Maria Remarque, l’autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale, «né io né Montherlant siamo mai stati a lungo al fronte, e questo fa la differenza». Davvero una grande differenza, in effetti.
Sappiamo che i primi libri di Jünger traggono ispirazione dai suoi diari di guerra. Nelle tempeste d’acciaio, pubblicato per la prima volta proprio nel 1920, e che dalla sua seconda edizione del 1922 in poi divenne sempre più popolare, mostra chiaramente che la Prima Guerra Mondiale, che descrisse quasi nella foga del momento, è all’origine della sua vocazione di scrittore. Drieu, ad eccezione delle sue prime due raccolte di poesie, Interrogation e Fond de cantine, non scrisse molto sulla guerra. Ha aspettato vent’anni per scrivere i sei racconti che compongono La commedia di Charleroi. (Inoltre, essendo stato riformato nel 1939, non parteciperà alla Seconda Guerra Mondiale).
Drieu trae dalla guerra un senso di esaltazione eminentemente personale: la guerra è stata per lui un’opportunità per vivere situazioni che non dimenticherà mai. Jünger, che conferisce al coraggio molta più importanza di quanto faccia Drieu, vede la guerra come un modo per selezionare un tipo di uomo. Inoltre, in quel momento, aderì a una concezione guerriera dell’esistenza («è la vita, sotto l’aspetto più terribile che il creatore gli abbia mai donato»), persino a una mistica della guerra, che non è affatto il caso di Drieu (che, negli anni 20 del ‘900, propendeva addirittura per il pacifismo). La guerra è ai suoi occhi un fatto della natura, e soprattutto della natura umana: «La guerra non è istituita dall’uomo, né lo è l’istinto sessuale; è una legge di natura, motivo per cui non possiamo mai sfuggire al suo impero». Si potrebbe dire che, paradossalmente, è nella guerra che l’uomo trova le condizioni per attuare la sua piena umanità – compreso il fare la guerra senza odio per il nemico (il vero guerriero fa la guerra contro stesso, prima ancora di farla contro i nemici esterni). «Una civiltà può ritenersi superiore quanto vuole, se il nervo virile si rilassa non è altro che un colosso dai piedi d’argilla».
I due scrittori, tuttavia, si misurarono entrambi con la Grande Guerra, iniziata nel 1914 come una guerra classica, e poi trasformatasi gradualmente in una guerra di tipo totalmente nuovo: uno spiegamento di gigantesche forze impersonali, un «duello di macchine così formidabile al confronto del quale l’uomo non esiste quasi più», ha detto Jünger. Ma l’avvento della «guerra tecnica» – «questa guerra di ferro e non di muscoli» – provocò soprattutto orrore in Drieu, che la vide come una «rivolta malefica della materia asservita all’uomo», una vera e propria «macelleria industriale» mentre in Jünger, che vede chiaramente come questa guerra sia simile a una fucina vulcanica dove gli elementi si scatenano in modo titanico, farà nascere l’intuizione di un nuovo tipo umano, totalmente opposto a quello del borghese: l’Operaio, il cui «realismo eroico» sarebbe in grado di assicurare la messa in moto (Mobilmachung) del Mondo. Mentre Drieu si trattiene nel lamento, per Jünger gli «eserciti di macchine» annunciano i «battaglioni di lavoratori», l’esperienza della guerra che deve dare all’uomo una disposizione (Bereitschaft) alla «mobilizzazione totale», un desiderio di dominio (Herrschaft) che si esprime per mezzo della Tecnica. Drieu, anche se scrive che «è ora necessario che l’uomo impari a padroneggiare la macchina, che lo ha oltrepassato in guerra», non condivide la visione al tempo stesso ottimista e volontarista, che lo scrittore tedesco svilupperà nel 1932 nel suo famoso libro L’Operaio, in cui troviamo l’elogio di questa Tecnica di cui condannerà più tardi, sotto l’influenza del fratello Friedrich Georg, il carattere «titanico».
Drieu e Jünger ovviamente concordano anche sul fatto che la Grande Guerra pose fine alla guerra «en forme» (Vattel) che conservava ancora qualche parentela con la guerra di cavalleria. Ma Jünger comprende anche che la guerra è ormai una «guerra totale», un’espressione il cui significato deve essere chiarito. La guerra totale non è la «guerra assoluta» (absoluter Krieg) di cui parlava Clausewitz, che, portata all’estremo può eventualmente portare alla «guerra di annientamento», in cui il nemico, anche se non è totalmente distrutto, diventa incapace di continuare a combattere. L’idea più importante, che gli ambienti conservatori e reazionari in genere non hanno ancora compreso, è piuttosto che la guerra non sia più esclusivamente una cosa militare, e che la guerra tra Stati classica ha finito per cedere il posto alla guerra economica e imperialista. Ciò che Léon Daudet aveva intravisto molto chiaramente già nel 1918, nel suo libro pionieristico, intitolato proprio La Guerra Totale: «Questa è l’estensione della lotta alla sfera politica, economica, commerciale, industriale, legale e finanziaria».
Philitt : I due scrittori usarono l’utopia romanzesca – Jünger con Sulle scogliere di marmo o Heliopolis e Drieu con Beloukia o L’uomo a cavallo – in un’epoca in cui il genere era ancora piuttosto raro. Al di là di questa somiglianza, i due scrittori condividono altri tratti comuni nella loro opera letteraria?
Alain De Benoist: Non sono abbastanza esperto in critica letteraria per rispondere correttamente a questa domanda. Dal punto di vista della scrittura, tuttavia, ciò che mi colpisce di Drieu è la sua propensione per una certa forma di confessione, in cui mette sé stesso a nudo senza deviazioni o indulgenze. Lo si vede chiaramente nei testi di lui pubblicati dopo la sua morte, sia esso Recit secret o Diario 1939-1945 (che riprende il precedente). Se non mi sbaglio, Jünger non ha mai ritardato le uscite e chiaramente non ne ha sentito il bisogno. Tutti i diari che tenne furono pubblicati durante la sua vita.
Philitt : Come sottolinea Julien Hervier nel suo libro « Deux individus contre l’histoire : Drieu et Jünger», «ciò che colpisce di Drieu come di Jünger, è la miscela esplosiva che si verifica in loro tra un indiscutibile spirito reazionario e una volontà rivoluzionaria». Jünger era così vicino, alla fine della Grande Guerra, a Ernst Niekisch, il pensatore del nazional-bolscevismo, e Drieu si rivolse al fascismo. Come si è caratterizzato il loro rispettivo tentativo politico di una terza via al di là della destra e della sinistra tra le due guerre?
Entrambi erano indubbiamente conservatori rivoluzionari, desiderosi di salvaguardare valori che consideravano eterni, ma allo stesso tempo consapevoli che l’avvento del mondo moderno ha creato rotture irrimediabili. Ma, a mio parere, la somiglianza non va molto oltre. L’impegno politico di Jünger è una diretta estensione della sua esperienza al fronte: dopo aver perso la guerra, il reduce dal fronte deve «vincere la nazione» Da questo punto di vista, la sconfitta tedesca può addirittura diventare una risorsa: «La Germania è stata sconfitta, ma questa sconfitta è stata salutare perché ha contribuito a far scomparire la vecchia Germania […] Abbiamo dovuto perdere la guerra per vincere la nazione». Non c’è niente di simile in Drieu, che si interessa davvero alla politica solo quando Jünger inizia ad allontanarsene.
All’inizio degli anni ’20, Ernst Jünger fu rapidamente considerato il più brillante degli scrittori della generazione del fronte. Stabilitosi a Lipsia nel 1923, dopo aver lasciato la Reichswehr, aderì alle organizzazioni legate ai FreiKorps (la brigata Ehrhardt, l’organizzazione Rossbach) e ad alcune leghe Bündisch annesse alla Jugendbewegung, frequenta innumerevoli cenacoli e gruppi nazionalisti e si butta a capofitto in politica, con il fratello Friedrich Georg. Questo impegno incandescente, in un’epoca che non era da meno, lo ha portato a scrivere circa 140 articoli per tutta una serie di riviste (Arminius, Vormarsch, Die Kommenden, Widerstand) nei quali ha sostenuto un «nuovo nazionalismo» di ispirazione soldatesca e rivoluzionaria. (Questi scritti giovanili, ripubblicati qualche anno fa in Germania, poi tradotti in italiano, rimangono fino ad oggi inediti in francese). «Se vogliamo esporre il programma che Niekisch ha sviluppato a Widerstand nella forma di una secca alternativa», ha scritto, «è qualcosa del tipo: contro il borghese, a favore dell’operaio; contro il mondo occidentale, a favore dell’Est».
I grandi saggi politici apparvero dal 1929. Fu prima di tutto la prima versione di Il cuore avventuroso (1929), poi La mobilitazione totale (1931), e infine L’operaio, che fu pubblicato nel 1932, ad Amburgo, dalla Hanseatische Verlagsanstalt diretta da Benno Ziegler. Nella sua giovinezza, senza dubbio proprio sotto l’influenza di Niekisch, Jünger giunse a volte a vedere nei comunisti i migliori preparatori della «rivoluzione senza parole» che celebrerà ne L’operaio. In seguito, però, e da tutta un’altra prospettiva, sottolineerà fino a che punto comunismo e nazionalsocialismo abbiano parimente introdotto la tecnologia nella vita politica, manifestando così la stessa adesione alla modernità, nell’orizzonte di una volontà di potenza che Heidegger ha saputo smascherare come una semplice «volontà della volontà». Riflessioni simili si possono trovare in Ginevra o Mosca (1928), dove Drieu sottolinea che il capitalismo e il comunismo sono entrambi eredi della Macchina: «L’uno e l’altro sono i figli ardenti e oscuri dell’industria».
Forse già preoccupato per l’ascesa del nazismo, Jünger prende le distanze radicalmente dalla politica nello stesso momento in cui Drieu vi si impegna altrettanto risolutamente. Quest’ultimo pubblica Socialismo Fascista nel 1934, per poi aderire tre anni dopo al PPF di Jacques Doriot, da cui si allontanò nel 1938, criticandolo per non essere «veramente rivoluzionario» (le sue dimissioni definitive dal PPF risalgono al 1939). Nel 1933, tuttavia, si era avvicinato alla corrente di sinistra guidata da Gaston Bergery quando quest’ultimo lanciò il «Fronte comune contro il fascismo!». Nel frattempo, va detto, che lo spettacolo delle manifestazioni del 6 febbraio lo riempirono di entusiasmo.
In Socialismo fascista, Drieu oppone Nietzsche a Marx: «Nietzsche contro Marx, Nietzsche succede a Marx, Nietzsche vero profeta e ispiratore delle rivoluzioni del dopoguerra». Ma sarebbe un grave errore credere che Drieu consideri la politica come il dominio delle idee in azione. Al contrario, la vede come pura azione, in opposizione a ogni intellettualismo, come mezzo per prendere congedo dalle idee, cioè dall’intelligenza astratta. Ma, pur denunciando l’intellettualismo, non ignora di essere egli stesso un intellettuale. Nella «prefazione» del suo Exorde (che non sarà pubblicato fino al 1961, contemporaneamente a La Récit secret), si legge: «Mi sono comportato in piena coscienza, secondo l’idea che mi ero fatto sui doveri di un intellettuale. L’intellettuale – così come il religioso e l’artista – non è un cittadino come gli altri. Ha doveri e diritti superiori a quelli degli altri».
Come ha giustamente notato Julien Hervier, la necessità dell’impegno nasce quindi in Drieu da un’etica dell’azione per l’azione. Si mette in gioco, non per provocazione, ma perché non farlo sarebbe da codardi: nella vita è fatto obbligo di sporcarsi le mani. E soprattutto, ripetiamolo, cerca nella politica ciò che ha sempre cercato, senza mai riuscirci: non tanto una «terza via» quanto una sorta di sintesi assoluta, grazie alla quale riuscire a conciliare le sue contraddizioni. È subito deluso, ma non vuole ammetterlo. È per la stessa ragione che durante l’Occupazione, anche se è convinto della sconfitta tedesca, rimarrà sulle sue posizioni.
Nei suoi romanzi, Drieu mette in scena alcuni personaggi che denunciano o rivelano la vanità dell’impegno politico. In Beloukia, Felsan viene presentato come «uno di quei mediocri che si gettano nel fanatismo politico per vendicarsi dei miseri risultati che nelle opere ordinarie produce l’eccessiva mediocrità dei loro temperamenti». In L’uomo a cavallo, anche Felipe non si fa illusioni sulla politica. È un’autocritica – un’altra?
Il nazional-bolscevismo professato da Niekisch e da pochi altri vedeva la Rivoluzione d’Ottobre come una rivoluzione eminentemente nazionale. Propone un «orientamento a Est» (Ostorientierung) al fine di liberare la Germania sconfitta dalla duplice influenza dell’Occidente dissoluto e del Sud cattolico. Niekisch vedeva anche nel sistema sovietico qualcosa di affine allo spirito prussiano e a quel «socialismo tedesco» reclamato anche nello stesso tempo da Spengler e Sombart. Drieu scrive che «l’unica risorsa profonda dell’imperialismo tedesco sarebbe il comunismo tedesco», ma non lo situa nella stessa prospettiva. Fu solo dal 1943, dopo aver realizzato che Hitler ha mancato la «rivoluzione socialista» e che l’hitlerismo era in impasse, che iniziò a lodare apertamente il comunismo russo: «Dobbiamo desiderare la vittoria dei Russi piuttosto che degli Americani […] I Russi hanno una forma mentre gli Americani no […] Niente più mi separa dal comunismo, niente mi ci ha mai separato se non la mia tensione atavica di piccolo-borghese».
Queste ultime parole sono rivelatrici. Nel Manifesto del Partito Comunista (1847) Marx affermava che «il governo moderno è solo un comitato che gestisce gli affari comuni dell’intera classe borghese». Aggiungeva che «le condizioni borghesi di produzione e di scambio, il regime borghese della proprietà, la moderna società borghese […] assomigliano al mago che non sa più dominare le potenze infernali che evoca». Jünger avrebbe potuto sottoscriverlo, poiché per lui la figura dell’Operaio è esattamente l’opposto di quella dell’odiato Borghese. Drieu è molto più ambivalente. Il suo primo matrimonio con Colette Jéramec gli aveva già permesso di condurre la vita borghese che diceva di detestare. Il suo romanzo, intitolato Rêveuse bourgeoisie, pubblicato nel 1937, descrive la storia di una famiglia borghese prima e dopo la Prima Guerra Mondiale, ma contiene poche considerazioni politiche. Drieu sa benissimo che l’individualismo borghese, da lui fortemente condannato, fa parte del suo essere. Maledice la decadenza soprattutto perché si rende conto che c’è anche qualcosa di decadente in lui.
Interrogation contiene questa frase: «Il sogno e l’azione». Queste sono parole che sono state citate spesso perché la loro giustapposizione traduce esattamente ciò che Drieu durante la sua vita ha cercato di riconciliare. La ricerca di una «terza via» potrebbe sembrare naturale a chi ha sempre cercato di conciliare gli opposti: sogno e azione, scrittura e guerra, inchiostro e sangue. Ma non ha mai raggiunto il suo scopo. Anche la politica ha corrisposto alla ricerca di un assoluto capace di riconciliare tutti gli opposti. Come l’eroe di L’uomo a cavallo, anche Drieu sognava «qualcosa di più profondo della politica, o meglio sognava una politica profonda e rara che unisca poesia, musica e, chissà, forse l’alta religione». Ma non è riuscito a determinare il percorso che lo avrebbe condotto in quella direzione. Per molti versi è sempre stato un dilettante. Riguardo al suo Diario degli anni 1939-1945, si è persino potuto parlare della sua «indifferenza verso ogni profonda convinzione ideologica», della sua «versatilità» (Julien Hervier). In fondo, non aveva i mezzi teorici per comprendere veramente le idee che sosteneva.
Drieu è uno di quelli che si sforzano di amare ciò che li ferisce di più. Ha una passione per la politica tanto più la politica lo disgusta e lo delude. È lo stesso con le donne, e anche con il corpo. Drieu era un uomo di esitazioni, di volta-faccia, di oscillazioni, di entusiasmi contraddittori, di indecisioni e soprattutto di slanci sempre delusi. Rispetto a Jünger, era un Soldato del Fronte, a volte un Ribelle (Waldgänger), mai un Anarca.
Philitt : I due uomini hanno come punto in comune l’aver ritenuto necessario per i popoli europei andare oltre i rispettivi ambiti nazionali. Che idea avevano entrambi sulla Nazione, oggetto di molti dei loro scritti dopo la Grande Guerra?
Fu negli anni ’20, a partire da Mesure de la France (1922), che Drieu si espresse con più forza a favore di un grande blocco continentale europeo. L’idea è ripresa nel 1927 in Il giovane europeo, nel 1928 in Ginevra o Mosca, nel 1931 in Europa contro le patrie. Ne La commedia di Charleroi, leggiamo, ancora nel 1934, che «oggi la Francia o la Germania sono troppo piccole». Allo stesso tempo, Drieu pensava di aver trovato nella Società delle Nazioni la soluzione a ciò che chiedeva (Ginevra o Mosca), cosa che oggi sembra un po’ strana. Ancora più stranamente, assegna al «capitalismo europeo» il ruolo di distruggere i patriottismi locali a beneficio del patriottismo europeo.
L’idea della «terza via» si basa, infatti, per lui, in maniera abbastanza classica, sull’evidente ai suoi occhi necessità che l’Europa si tenga a distanza sia dal modello americano che da quello sovietico, due forze di cui all’epoca notava la profonda parentela: «Negli Stati Uniti d’America, quelli che vengono chiamati capitalisti, nella Russia Sovietica vengono chiamano comunisti, ma fanno la stessa cosa». Nei suoi romanzi, Boutros, personaggio centrale di Una donna alla finestra, dichiara, sebbene comunista, di non avere «grande fiducia né negli americani né nei russi». «Piccoli ed esausti popoli d’Europa, siamo tra due masse: l’America e la Russia. L’Europa, posta tra imperi di dimensioni continentali, comincia a soffrire dall’essere divisa in venticinque Stati, nessuno dei quali è delle dimensioni per dominare tutti gli altri o per rappresentarli degnamente nella competizione spropositata che si apre tra enormi pezzi di Asia e di America» (Mesure de la France). La sua idea generale è che il futuro dell’Europa dipende dalla sua capacità di unirsi per affrontare i due imperialismi concorrenti che la minacciano allo stesso modo. Le «piccole patrie», i nazionalismi divenuti ristretti, non sono in grado di farlo. Per fare l’Europa bisogna fare la guerra alle «piccole patrie» che sono tanti ostacoli al suo emergere sulla scena mondiale. «L’Europa si unirà o si divorerà, o sarà divorata», si legge ancora in Mesure de la France. In un passaggio, Drieu fa l’elogio dell’Impero: «La patria è amara per coloro che sognavano l’Impero. Che cos’è per noi una patria se non la promessa dell’Impero?» (L’uomo a cavallo). L’Europa deve federarsi in modo «imperiale», il che significa che non la concepisce in modo «napoleonico», come una nazione allargata. Quello che Hitler, prigioniero del suo nazionalismo e del suo pangermanesimo, non ha mai capito. Drieu lo ripete costantemente dopo il 1942: «Hitler è un rivoluzionario tedesco, ma non europeo».
In L’Europa contro le patrie, scrive: «Innanzitutto non siete tedeschi, basta con questi scherzi. Né siamo Galli o Latini, né gli Italiani sono Romani. Figure tratteggiate dalla poesia, addensate in forme di mostri politici dalla piccola borghesia nostalgica nelle profondità delle biblioteche del XIX secolo […] Ora si impone un altro genere di cura che espande lo Stato nazionale in un momento in cui esso non conta nulla quando esso non sia un continente». Si noti che Drieu riecheggia anche l’opposizione di «giovani» e «vecchi», che troviamo in un Moeller van den Bruck. In forme diverse, questo tema di un’Europa potente e socialista rimarrà una costante nella sua opera.
Jünger stesso è stato anche lui in grado di prendere le distanze da ristrette appartenenze nazionali. E’ stato anche lui stesso un «buon Europeo», ma non nella concezione di Drieu. L’Operaio pone già una problematica globale che si troverà nel dopoguerra nel suo saggio sullo Stato Universale. In La Pace, Jünger si accontenta di implorare la rinascita di un’Europa spiritualmente unita e ricristianizzata. Drieu sogna solo la rigenerazione. Come Nietzsche, pensa che ciò che sta crollando non debba essere salvato, ma anzi si debba sperare si acceleri il suo crollo. Per questo, nel suo diario, dichiara di augurarsi la distruzione dell’Occidente e di invocare una barbara invasione che spazzi via questa civiltà morente: «È con gioia che saluto l’avvento della Russia e del comunismo. Sarà atroce, atrocemente distruttivo».
Drieu è un anglomane e ha la reputazione di essere germanofilo, ma in fondo non sa molto del mondo germanico. Jünger è considerato un francofilo, il che non è sbagliato ma troppo spesso fa dimenticare, tra i francesi in particolare, quanto anche lui appartenga alla germanicità. Drieu è talvolta accecato dalla sua anglomania: per primo ha scritto che gli europei dovrebbero prendere a modello gli anglosassoni, di cui ha sottolineato il loro essere dandy, il culto del corpo e l’eleganza. È solo in un secondo momento, sembra, che si renderà conto che i paesi anglosassoni sono anche la terra prescelta del capitalismo, dell’utilitarismo e della standardizzazione materialista, e che sono «le due grandi potenze anglosassoni che detengono gli oceani». Infine, notiamo che i Paesi del Sud, i quali giocano un ruolo importante nei suoi romanzi, sono rimarcabilmente assenti dalle sue considerazioni più teoriche relative all’Europa.
Philitt: Entrambi diedero grande importanza alla trascendenza e svilupparono un interesse per le religioni e per il cristianesimo – si pensi ai numerosi riferimenti all’Antico e al Nuovo Testamento in «Diario di guerra» di Jünger – sviluppando su di esse uno sguardo critico e nietzschiano. Come vedevano questo mondo moderno abbandonato dal divino?
Jünger lesse principalmente scritti biblici e cristiani a partire dalla fine della guerra, quando scrisse La Pace, e anche negli anni ’50, durante il periodo che terminò con il suo saggio su Lo Stato mondiale (1960) – uno sviluppo che deluse molto il suo segretario dell’epoca, Armin Mohler! Jünger traccia un parallelo tra l’ascesa del totalitarismo (la «nuda bestialità») e la disintegrazione della cristianità.
Nelle sue Lettere aperte ai surrealisti, Drieu, che sognava anche di essere un prete o un monaco, scrive che «la funzione essenziale, la funzione umana per eccellenza che viene offerta a uomini come voi, audaci e difficili, è cercare e trovare Dio». Ma in lui le allusioni a Dio sono piuttosto rare, e su questo punto si discosta assai poco da Jünger. Più che la religione stessa, è la spiritualità – per usare un termine diventato di moda, e quindi abusato – che lo attrae. Di qui l’interesse che finì per mostrare per le saggezze orientali e perfino per l’esoterismo. Nella prefazione di Gilles (1939), scrisse che se avesse potuto rivivere la sua vita, l’avrebbe dedicata alla storia delle religioni. Come Jünger, che era molto legato a Mircea Eliade (hanno animato insieme la rivista Antaios), ha un interesse appassionato per i miti e si riferisce costantemente al sacro, ma senza mai cercare di metterlo in relazione con una particolare religione. Il sacro è per lui sinonimo di divino, e questo divino è più immanente che trascendente: «Dio», dice ancora, «rappresenta soprattutto la “profondità del mondo”». Dall’affermazione di Nietzsche secondo la quale «Dio è morto», Jünger trae la convinzione che «Dio deve essere concepito in un modo nuovo». Ciò che di solito si chiama fede, difficilmente trova qui posto. Pensiamo invece alla famosa affermazione di Heidegger: «Solo un Dio ci può salvare».
Philitt: Vede nelle loro caratteristiche artistiche, segnate dal surrealismo per Drieu la Rochelle e dal classicismo per Ernst Jünger, un legame con il loro impegno politico?
Non so se si possa davvero parlare, riguardo a Jünger, di una vera attrazione artistica per il classicismo. Giunto al periodo «goethiano» della sua vita, non ha certo mai smesso di scrivere in stile classico, ma ciò non gli ha impedito di interessarsi a pittori, incisori o disegnatori di tendenze molto diverse (Alfred Döblin, A. Paul Weber e molti altri).
Drieu, dal canto suo, ha sempre avuto una visione eminentemente estetica della vita in generale, e della politica in particolare. Voleva essere un grande artista, come voleva essere un grande poeta, un grande amatore, un grande politico, ma è difficile capire quali fossero esattamente i suoi gusti artistici. In tre note lettere incendiarie, ha rotto rapidamente con i surrealisti, i quali anche loro lo hanno deluso. In una di queste lettere, confida di vedere «la vita come una preghiera e l’Arte, il modo di particolare, questa preghiera», ma le sue osservazioni si riferiscono solo all’«Arte» in generale, non a uno stile particolare. Gli è capitato in seguito di difendere pittori come Fernand Léger, Georges Braque, Matisse o Picasso, ma ciò non basta per informarci davvero sulle sue predilezioni artistiche.
Nel suo articolo «Artisti e Profeti», pubblicato nel 1939 a Buenos Aires sul quotidiano La Nación, Drieu nota che gli «inquisitori hitleriani», nella loro lotta contro la «pittura degenerata», «vogliono distruggere tutto l’aspetto convulsivo dell’arte degli ultimi lustri; ma loro stessi, nel loro movimento rivoluzionario, sono l’espressione più certa del carattere convulsivo dello spirito del secolo». E aggiunge: «Gli hitleriani bandirono l’opera di Vincent Van Gogh dai musei tedeschi. Tuttavia, questo pittore violento e disperato mi sembra uno dei precursori di Hitler». Un’idea che non era ancora stata esplorata!
Traduzione a cura di Manuel Zanarini
(https://philitt.fr/, Alain de Benoist : « Drieu et Jünger ont été des conservateurs révolutionnaires, désireux de sauvegarder des valeurs éternelles », intevista a cura di Benjamin Fayet, 20 settembre 2021)