Mario Bosincu è ricercatore in Letteratura tedesca presso l’Università di Sassari. Profondo conoscitore e instancabile studioso delle opere di Ernst Jünger – una grande passione in comune, il fuoco che non si estingue e rilascia luce e calore – ha, da lungo tempo, associato agli studi jüngheriani la critica alla civiltà e alla società, in un contesto fenomenico che non esclude l’Antropologia e storia delle religioni. In una delle sue principali pubblicazioni, Sulle posizioni perdute, forme della soggettività moderna dell’anticapitalismo romantico a Ernst Jünger, affiora un intelletto a suo agio nel leggere tutte le increspature di un futuro distopico, muovendosi in maniera accorta ed efficace nel complesso mondo delle trasformazioni del Pianeta: in special modo, quelle che concernono l’assiomatica dell’interesse, l’individualismo metodologico, l’ideologia della crescita infinita, la dottrina del progresso, dei “diritti dell’uomo” e dell’espansione del valore mercantile in ogni ambito e sfera.
Dopo l’uscita nel 2020 di Autunno in Sardegna, volume che raccoglie ben tre scritti di Jünger, San Pietro, Serpentara e Autunno in Sardegna, dal 1° luglio 2021 è possibile leggere le altre annotazioni diaristiche dei suoi viaggi nel Mediterraneo; la grande caratura spirituale, intellettuale, filosofica, estetica e dialogica del sublime genio di Heidelberg, è tale da far impallidire Erodoto di Alicarnasso e le sue Storie. Un altro ottimo lavoro, sempre a cura del professor Bosincu, dal titolo La Grande Madre. Meditazioni mediterranee, desta l’interesse del lettore in direzione delle “stelle del fuoco”, le Pleiadi: l’Introduzione è così piena di sagacia, sapienza e buon senso, quasi a voler suggerire gli inni in onore di Agni, la divinità vedica che le presiede.
Avvicinandoci ineluttabilmente all’inusuale, alla triplice essenza e, successivamente all’archetipo della Quaternità, ben riscontrabili nello spirito e nella personalità di Jünger. In un uomo che recava in sé l’insieme cosmogonico ben descritto da Empedocle, i quattro elementi che compongono tutte le cose, le “radici”: il fuoco, la terra, l’aria e l’acqua –ριζώματα, rizòmata –. Lo Jünger, formidabile messaggero, perfettamente in grado di mediare e di comprendere a pieno l’ordine umano e quello Divino, in quanto partecipe e attento alla molteplicità intrinseca di ogni dimensione.
Il «contemplatore solitario» molto caro a Quirino Principe, che negli scritti de La Grande Madre. Meditazioni mediterranee, osserva e contempla le stesse forze telluriche del cuore pulsante della Terra: l’Omphalos, l’ombelico del mondo più antico, la Sardegna, è un tutt’uno con le onde fluttuanti di un mare chiuso qual è il Mediterraneo, con le potenze in conflitto della Titanomachia e con le forze che irradiano potenza dal Cosmo. Ma il monito di Jünger è chiaro, mettendoci in guardia da ogni possibile travisazione: i titani «vinti da Zeus e banditi nel Tartaro fanno ritorno», l’esempio di Prometeo libero dalle sue catene ne è la riprova. Nelle terre lambite dal Mare nostrum, «i titani operano e danno vita alle loro invenzioni all’interno del tempo» e non fuori da esso.
Questo significa che tutto ciò che non è soggetto al calcolo, al tintinnio delle lancette, alla fissità di un tempo scandito in modo meccanico, risiede altrove ed è atemporale. Dopotutto, il “titanismo prometeico”, i vecchi e nuovi titani, «sono imparentati più con la tecnica che con le arti». E come consigliava saggiamente Hölderlig, è meglio per il poeta «trovare consolazione presso il dio Dionisio», affidandosi a quei sogni che generano la creatività e l’ispirazione «durante il dominio della stirpe dell’età del ferro». Presto gli dèi faranno ritorno, ristabilendo l’armonia perduta, gli stessi dèi che non se ne sono mai andati ma che noi abbiamo dimenticato, metteranno fine a questo dominio.
L’interregno della tecnica svincolata dall’imperio dell’uomo e della «scienza che tocca i suoi limiti e inizia a superarli» sono la rappresentazione, più correttamente una delle visioni jüngheriane di un mondo che è diventato un teatro dell’assurdo, un Grand Guignol diretto da giganti e chimere, messo in scena da forme prometeiche che danzano estatiche nella fase acuta dell’interim: il livellamento assoluto di una civiltà ormai morente, dove «il loro potere trova conferma nell’eterno ritorno». E come scrive giustamente Jünger, dimostrando ancora una volta di essere un veggente, da intendere come colui che è dotato della facoltà di vedere, «questa forma di eternità non rappresenta la fine del tempo e dei tempi, ma la loro estensione all’infinito».
Quel voler raggiungere tenacemente un’immortalità impossibile, cosa ben visibile nei tempi grami che stiamo attraversando; lì dove tutto è inattuale, in primis gli dèi ed il concetto di Sacro, le energie sprigionate dallo sfavillio di “uomo aumentato” si perdono in una conoscenza che non è più contemplativa ma produttiva. Del gesto, emblema ad appannaggio del solo esecutore tecnico, pensando di realizzare le condizioni umane di sopravvivenza e prendendo definitivamente le distanze dagli stimoli dell’habitat e dell’ambiente che lo circondano. La massima espressione di un uomo che basta a sé stesso, per il motivo che ha già rinunciato a priori ad ogni finalismo del pensiero e dell’agire a patto che sia individuale.
Il “sismografo” Jünger, così più volte lo hanno definito, capì anticipatamente cosa muove l’idea dell’artificio e/o l’illusione del voler oltrepassare lo spazio ed una dimensione definite con altre possibili, dando libero sfogo ai desideri dell’individuo, al dogma dei bisogni astratti che ne genera sempre di nuovi. Riscoprendo una libertà strumentale in grado di invertite i poli: l’uomo al servizio della tecnica e non la tecnica al servizio dell’uomo. Abolendo al contempo i confini e gli orizzonti, proiettandoli in un futuro post-umano in cui la fisicità, la mente, il tatto, la vista, l’udito, le esperienze sensoriali, cerebrali, le emozioni e le identità, passano attraverso altri corpi, presunti o reali che siano, assegnando all’uomo non più il ruolo di artefice ma il ruolo di elemento da prestazione.
Nella peggiore delle ipotesi un “automata”, l’equazione animale-macchina di Descartes avvicendata anch’essa con la più ancora infelice equazione uomo-macchina: l’elevazione a potenza dell’artificiale, in esattezza dell’artificio, identico a tutto ciò che non lo è, compreso l’uomo, il quale può essere studiato alla stessa stregua di una macchina. Una visione delle cose che contrasta decisamente con la visione del curatore de La Grande Madre. Meditazioni mediterranee e con buona parte della bibliografia di Jünger.
A conclusione di questa lettura, torna in mente la discordanza di pensiero manifestata da Heidegger a Jünger, a proposito della situazione in generale e su il celebre «punto zero», descritto in Oltre la Linea: «La linea si chiama anche meridiano zero. Lei parla di punto zero. Lo zero allude al niente, e precisamente al niente vuoto. Dove tutto spinge al niente, lì domina il nichilismo. Al meridiano zero il nichilismo si avvicina al suo compimento». Mai come nella pubblicazione curata da Bosincu, i due grandi del pensiero europeo a tratti convergono, con tutte le dovute precauzioni del caso.
Questo al di là della querelle riguardante il senso e la denominazione, punto o meridiano zero – qui Heidegger aveva ragione –, l’ultimo Jünger ammicca non poco a cosa volesse intendere il «piccolo mago» del Baden-Württemberg, simpatico nomignolo di Heidegger datogli dai suoi studenti. Foriera di buoni consigli per Jünger è stata la sua «seconda grande madre, il Mediterraneo». Terra e Cosmo, le profondità telluriche, le potenze «ctonie», quella dei cicli celesti e l’erudizione del Cosmo, non sono mai stati così vicini.
Ernst Jünger
La Grande Madre. Meditazioni mediterranee
A cura di Mario Bosincu
Editoriale Le Lettere, Collana Vita Nova
Ppgg. 214, euro 15.50
(Foto: Cielo sopra il nuraghe – Goni di Samuele Pinna)