Belfast è il nuovo film di Kenneth Brannagh (Enrico V, Frankenstein di Mary Shelley, Hamlet, ecc.) famosissimo attore e regista di solidissima base shakespeariana. La pellicola è ambientata a Belfast alla fine degli anni ’60, quando i Troubles sono in procinto di esplodere. All’interno di una comunità organica nord-irlandese, protestanti e cattolici vivono pacificamente e il piccolo Buddy cresce sereno e amato da tutti. A un certo punto, l’odio settario comincia a seminare divisioni e violenza e la serenità di Buddy e della sua famiglia viene sempre più compromessa, insieme a quella della loro comunità e delle intere Sei Contee nord-irlandesi. Tra violenze settarie, disoccupazione (come recita un radiogiornale dell’epoca, il Nord-Irlanda era in quel momento storico la zona con maggiore disoccupazione del Regno Unito) e una vita fatta di piccoli espedienti, la famiglia di Buddy si trova, come molte altre, a scegliere tra una vita di difficoltà e minacce o l’emigrazione, che come recita un’interprete del film è nel DNA del popolo irlandese: “se non fosse così non ci sarebbero pub negli altri Paesi”.
Quando un’opera, in questo caso un film, si può definire un capolavoro? A parte l’aspetto meramente artistico, che brevemente analizzerò alla fine, l’opera dovrebbe scatenare nello spettatore quante più emozioni possibili svolgendo un ruolo di innalzamento culturale e spirituale, cosa che non succede con i lavori di mero intrattenimento. Se questo è il criterio, o per lo meno è il mio personale criterio, si deve senza dubbio ammettere che Belfast sia un capolavoro assoluto. Brannagh ci racconta con gli occhi curiosi, divertiti e ingenui del bambino Buddy la storia che ha sconvolto un intero Paese e ci fa riflettere sullo scontro tra Comunità irlandese (prima degli odi settari) e Società inglese (Kultur contro Zivilisation), facendoci riflettere, e contemporaneamente “sentire”, su quello che è forse il più grande dibattito del mondo moderno e che coinvolge l’intero pianeta. Anche in Italia è esistita la fase di passaggio dal “cortile” e/o la mentalità delle piccole comunità alla disumanizzante metropoli, e basta leggere Pasolini per rendersene conto. L’opera del cineasta irlandese ci apre gli occhi su cosa sia una guerra civile in cui i vicini di un tempo finiscono per odiarsi e/o per dover abbandonare tutto, riflessione quanto mai attuale vista la fratricida guerra in Ucraina. Ci fa sorridere e ridere grazie a battute geniali e fulminanti da parte di una comunità di personaggi degni di un Charles Dickens, ma animati dallo spirito irlandese, e che si arrabatta tra espedienti e povertà. Ci fa commuovere fino alle lacrime con un ventaglio di emozioni che vanno dallo stupore alla meraviglia, dal senso di appartenenza a quello di sradicamento, dalla tenerezza all’amore, dalla gioia per la vita al dolore per la morte. Ci ricorda quanto dovrebbe essere importante per le nostre vite il tesoro che i nostri anziani rappresentano in termini di saggezza, supporto e amore incondizionato. Dopo l’ora e mezza passata a seguire le vicende di Buddy, della sua famiglia e della sua comunità, non può esservi dubbio che lo spettatore sia più consapevole e spiritualmente arricchito ed elevato.
Artisticamente la caratura di Brannagh ovviamente non la si scopre certo oggi: l’uso eccellente e ispirato del bianco e nero; la leggerezza, e la profondità al contempo, nel raccontare una storia generalissima e drammatica (dall’inglese drama); la scelta di raccontare la grande storia tramite gli occhi di un bambino e di una piccola comunità; il simbolismo delle immagini; le canzoni, gli spettacoli televisivi e teatrali che ricostruiscono l’epoca del film in modo incredibilmente realistico; ecc. Degli attori che dire: l’esordiente Jude Hill è semplicemente straordinario, Ciaran Hinds è adorabile e credibile come raramente accade e infine una Judi Dench che sforna l’ennesima prova monstre che corona una carriera straordinaria. Strepitosa Down to Joy, ballad di Van Morrison (originario proprio di Belfast) in stile Springsteen che apre il film con le immagini di una Belfast iper-moderna che segna subito il distacco dalla Belfast degli anni ’60 che Brannagh ci presenta in contrasto ad essa adoperando il bianco e nero. Insomma, Belfast ha raccolto ben 7 candidature all’Oscar e personalmente spero che porti a casa almeno 6 statuette: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura (cosa che consegnerebbe a Brannagh ben 3 Oscar), migliore attrice (Judi Dench) e migliore canzone (appunto Down to joy).
Fate un favore soprattutto a voi stessi, correte a vedere Belfast, e se riuscite e potete godetevi quella meravigliosa lingua che è l’irlandese di Belfast!