Testo di Alain de Benoist, pubblicato nel numero speciale di Livr’Arbitres, IX° conferenza dell’Institut Iliade, sabato 2 aprile 2022.
Democrazia d’opinione? Democrazia televisiva? Democrazia di mercato? Sia che le studiamo collocandole nella dimensione della crisi sia che le valutiamo in relazione a dinamiche postmoderne, le patologie che colpiscono le democrazie contemporanee stanno attirando sempre più l’attenzione degli osservatori. L’opinione generale è che queste patologie, lungi dall’essere inerenti alla democrazia stessa, derivino da una corruzione dei suoi principi. Gli osservatori più superficiali attribuiscono questa corruzione a fattori o fenomeni esterni (si denunciano abitualmente fondamentalismo, populismo, comunitarismo, globalizzazione, ecc.), il che equivale a mettere in discussione esclusivamente l’evoluzione dei costumi e dei cambiamenti nella società. L’effetto è spesso scambiato per la causa. I più seri invece vanno oltre le osservazioni immediate mettendo in discussione l’evoluzione intrinseca della democrazia stessa, analizzando quindi la discrepanza più o meno marcata tra ciò che la democrazia è diventata e ciò che dovrebbe essere rispetto ai suoi principi fondanti. Alcuni parlano di «post-democrazia», non per dire che la democrazia stia per finire, ma per suggerire che essa ha assunto forme post-democratiche, che dovranno poi essere definite e identificate1. Altri suggeriscono che oggi siamo in una situazione paragonabile a quella della Francia pochi anni prima della Rivoluzione2 . Ad ogni modo, il tono più comune è quello della preoccupazione e della disillusione.
L’attuale crisi non è la prima che le democrazie europee hanno conosciuto. Marcel Gauchet pubblicò su questo argomento i primi due volumi di un vasto affresco (che comprenderà quattro volumi) su L’avvento della democrazia3. Ne ha fatto un riassunto in una conferenza tenuta ad Angers nel giugno 2006, che è stata a sua volta pubblicata sotto forma di un piccolo libro: La democrazia da una crisi all’altra4.
La prima crisi della democrazia si concretizzò in Francia a partire dal 1880, si affermò con lo «shock del 1900», ma non esplose realmente se non dopo la Prima Guerra Mondiale, per culminare negli anni ’30 del 900. In quel periodo, scrive Gauchet, «il sistema parlamentare si rivela sia ingannevole che impotente; la società, afflitta dalla divisione del lavoro e dall’antagonismo di classe, dà l’impressione di disgregarsi; il mutamento storico, nello stesso momento in cui si generalizza, accelera, e si amplifica, sfugge a ogni controllo»5. Stiamo entrando nell’era delle masse e la società è lacerata dalle lotte di classe. Cominciano a crollare anche le solidarietà organiche e le campagne iniziano a svuotarsi. La conseguenza diretta di questa crisi sarà, in primo luogo, il sorgere delle prime ideologie volte ad affidare il potere politico a «esperti» (pianificazione, tecnocrazia), poi, e soprattutto, l’affermarsi di regimi totalitari, che si adopereranno, come Louis Dumont (e in misura minore Claude Lefort) ha dimostrato, nel compensare gli effetti dissolventi dell’individualismo e la destrutturazione culturale delle società mediante un olismo tanto artificiale quanto brutale, legato alla mobilitazione delle masse e all’istituzione di una società ”cameratesca” all’interno della società globale, in uno sfondo di richiamo a nozioni prepolitiche come quella della «comunità razziale». In realtà, nota Gauchet, essi «ritornano, o tentano di ritornare, con un linguaggio laico, alla società religiosa, alla sua coerenza e al tipo di convergenza delle sue parti»6. I totalitarismi del XX Secolo sono incontestabilmente, da questo punto di vista, figli (illegittimi) del liberalismo7.
La fine della Seconda Guerra Mondiale segnò il grande ritorno della democrazia liberale. Inizialmente, però, per evitare di ricadere negli errori del periodo precedente lo scoppio del conflitto, questa democrazia liberale si avvolgerà nei nuovi abiti del Welfare State. In un contesto dal fordismo trionfante, si andrà infatti a mettere in atto un regime misto, che associava al classico Stato di diritto elementi di essenza più democratica, in cui però la democrazia è percepita soprattutto come «socialdemocrazia». Gauchet elenca alcune delle caratteristiche di questa «sintesi liberaldemocratica»: rivalutazione del potere esecutivo all’interno del sistema rappresentativo; adozione di tutta una serie di riforme sociali volte a proteggere gli individui dalla malattia, dalla disoccupazione, dalla vecchiaia o dall’indigenza; infine, l’istituzione di un apparato normativo e previsionale destinato a porre rimedio all’anarchia causata dal libero sviluppo degli scambi sui mercati. Questo sistema funzionerà più o meno normalmente fino alla fine dei «Trenta Gloriosi», cioè fino alla metà degli anni ’70 del 900.
Dal 1975-80 compaiono nuove tendenze, che ricreano le condizioni della crisi, ma di una crisi diversa. La socialdemocrazia, concepita come una compagnia di assicurazioni o un’organizzazione di beneficenza, comincia a esaurirsi e il puro liberalismo riprende il sopravvento. La società civile, privilegiata senza misura, diventa il motore di una nuova fase dell’organizzazione autonoma della vita sociale. Assistiamo al grande ritorno del liberalismo economico, mentre il capitalismo si libera gradualmente da tutti gli ostacoli, un processo che culminerà nella globalizzazione che seguirà alla disintegrazione del sistema sovietico. L’ideologia dei diritti dell’uomo, a lungo confinata nel ruolo simbolico o decorativo riservato alle venerabili astrazioni di un’altra epoca, si comincia ad affermare poco a poco come religione dei tempi nuovi e allo stesso tempo come cultura dei buoni sentimenti, unico modo per stabilire un consenso sulle rovine delle ideologie precedenti. Lo Stato-nazione, allo stesso tempo, si dimostra sempre più impotente ad affrontare le sfide del momento e perde progressivamente tutti i suoi «valori di podestà», mentre assistiamo, in tutti gli ambiti, a un massiccio rilancio del processo di individualizzazione, che si traduce nella scomparsa di fatto di tutti i grandi progetti collettivi fondanti un «noi». Mentre in passato «era solo una questione solo di masse e di classi, l’individuo veniva individuato solo attraverso il suo gruppo, la società di massa è stata sovvertita dall’interno dall’individualismo di massa, staccando l’individuo dalla sua appartenenza»8. Fu anche il momento della quasi-scomparsa delle società rurali occidentali (in Francia gli agricoltori rappresentano ormai solo l’1,6% delle famiglie), una vera rivoluzione silenziosa i cui profondi effetti sarebbero passati più o meno inosservati, e della generalizzazione delle società multietniche derivante dall’immigrazione di massa.
Per comprendere questa evoluzione, dobbiamo prendere piena coscienza di ciò che distingue la democrazia antica dalla democrazia moderna. La prima, basata sull’idea di un’auto costituzione delle comunità umane, può essere definita come la declinazione politica dei mezzi di autonomia attraverso la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica. La democrazia moderna è intrinsecamente legata alla modernità, ma ad essa è legata solo attraverso un legame con il liberalismo che tende a deformarla. La causa profonda della crisi è l’alleanza innaturale della democrazia con questo liberalismo, che Marcel Gauchet ha saputo presentare come la «dottrina stessa del mondo moderno»9.
L’espressione «democrazia liberale» associa due termini posti come complementari, mentre sono contraddittori. Questa contraddizione, manifestandosi pienamente oggi, minaccia le fondamenta stesse della democrazia. «Il liberalismo mette in crisi la democrazia», dice ancora Gauchet. Chantal Mouffe ha osservato giustamente che «da un lato, abbiamo la tradizione liberale costituita dallo Stato di diritto, dalla difesa dei diritti dell’uomo e dal rispetto della libertà individuale; dall’altro, la tradizione democratica le cui idee principali sono quelle di uguaglianza, dell’identità tra governati e governanti, e della sovranità popolare. Non c’è un rapporto necessario tra queste due diverse tradizioni, solo un’articolazione storica contingente»10. Chi non vede questa distinzione non può capire nulla dell’attuale crisi della democrazia, che è proprio una crisi sistemica di questa «articolazione storica contingente». Democrazia e liberalismo non sono affatto sinonimi; anzi, sui punti importanti, sono anche nozioni opposte. Possono esserci democrazie non liberali (democrazie tout court) e forme di governo liberale che non hanno assolutamente nulla di democratico. Carl Schmitt è arrivato al punto di dire che più una democrazia è liberale, meno è democratica.
Rispetto alla democrazia antica, la grande differenza con la democrazia moderna, quella i cui principi furono posti in essere a partire dal 1750, è che essa si basa, non tanto sulla partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, quanto sul diritto universale degli individui, e, d’altra parte, sul fatto che non è nemmeno estranea, nella sua ascesa storica, all’ideologia del progresso. Il liberalismo porta a una confusione della politica con la morale e il diritto. L’ideologia del progresso conferisce alla dinamica democratica un orientamento che la proietta costantemente in avanti nell’invenzione del futuro. Lo spostamento verso il futuro, dimensione storica ormai privilegiata, comporta una «completa riorganizzazione dell’ordine delle società»11. In particolare, porta ad una «inversione di segno nel rapporto tra potere e società»12. La società, e non più il potere, si pone come sede di dinamiche collettive. Ne consegue che il sistema politico deve innanzitutto garantire la libertà degli individui, che sono i veri attori della storia. Non sono più quindi le leggi che determinano i costumi, ma i costumi che gradualmente modificano le leggi.
Scrive Gauchet: «Il potere, in tale quadro, non può più essere considerato come la causa della società, come l’autorità incaricata di farla esistere ordinandola […] Il potere è da considerarsi come l’effetto della società. Può essere solo sottoposto a essa e il suo unico ruolo può essere quello di compiere le missioni che essa gli assegna. Ha senso solo, in una parola, per rappresentarla»13. La democrazia resta certamente definita classicamente come consacrazione del «potere del popolo», ma in realtà, divenuta liberale e puramente rappresentativa, non è più altro che il regime politico che consacra l’ascesa dell’individualismo moderno e il primato della «società civile» sull’ autorità politica.
Dalla fine degli anni ’80 del 900, periodo che vide anche l’emergere della postmodernità, l’avvento della «democrazia dei diritti dell’uomo» riflette una rinnovata influenza del liberalismo sulla democrazia. Questo fenomeno corrisponde a ciò che Marcel Gauchet chiama il «rivolgimento della democrazia contro sé stessa»: «La nozione di Stato di diritto acquista in questa situazione un rilievo che va ben oltre il significato tecnico in cui era confinata. Tende a confondersi con l’idea stessa di democrazia, assimilata alla tutela delle libertà private e al rispetto delle procedure che presiedono alla loro espressione pubblica. Significativamente, la comprensione spontanea della parola democrazia è cambiata […] Precedentemente, significava potere collettivo, capacità di autogoverno. Ora si riferisce solo alle libertà personali. Tutto ciò che accresce il posto e il ruolo delle prerogative individuali va nella direzione della democrazia. Una visione liberale della democrazia ha soppiantato la sua nozione classica. La pietra di paragone in questa materia non è più la sovranità del popolo, ma la sovranità dell’individuo, definita dalla possibilità ultima di sconfiggere, se necessario, il potere collettivo. Per cui, passo dopo passo, la promozione del diritto democratico porta all’incapacità politica della democrazia»14.
La democrazia implica l’esistenza di un soggetto democratico, in questo caso il cittadino. L’individuo atomizzato come concepito dalla teoria liberale non può essere cittadino, perché è per definizione estraneo al voler vivere in comune. Confondendo la parte per il tutto, i sostenitori della dottrina liberale pretendono di difendere la libertà individuale ignorando la sua dimensione collettiva, cioè l’esistenza delle comunità e l’esigenza di controllo collettivo insite nella democrazia. Inoltre, la logica dei diritti dell’individuo è una logica dell’illimitato, perché è supportata dall’«astrazione della legge che non si ferma mai» (Gauchet). Tuttavia, l’enfasi posta sulla sola libertà individuale impedisce la creazione delle condizioni per la libertà collettiva, in quanto la prima crea una minaccia intrinseca di dissociazione dalla collettività. Tocqueville credeva che la passione per l’uguaglianza minacciasse costantemente la libertà. Ha commesso l’errore di non vedere che, al contrario, la passione per la libertà astratta minaccia anche la democrazia. La democrazia procedurale si basa sull’idea di libertà senza potere, che è solo un ossimoro (il potere passa semplicemente altrove). Chantal Mouffe sottolinea inoltre che «l’incapacità dell’attuale teoria democratica di affrontare frontalmente la questione della cittadinanza è la conseguenza di una concezione del soggetto che considera gli individui come anteriori alla società, portatori di diritti naturali, che sono o agenti massimizzatori di utilità o soggetti razionali. In ogni caso, gli individui sono tagliati fuori dalle relazioni sociali e di potere, dalla lingua, dalla cultura e da tutte le pratiche che rendono possibile la loro azione»15.
Le prerogative della politica non sono minacciate solo dal diritto, ma anche dall’economia. Nella società liberale, la comunità politica, cessando di autogovernarsi, «diventa, in senso stretto, una società politica di mercato. Non intendiamo una società in cui i mercati economici dominano le scelte politiche, ma una società il cui funzionamento politico stesso mutua dall’economia il modello generale del mercato, in modo tale che la sua forma complessiva si presenti come la risultante delle iniziative e delle rivendicazioni dei vari attori, al termine di un processo di aggregazione autoregolato. Ne consegue una metamorfosi della funzione di chi governa. Costoro sono lì solo per garantire che le regole del gioco siano preservate e assicurare il buon funzionamento del processo»16. Il governo degli uomini si riduce quindi alla gestione amministrativa. La negazione del primato del dominio pubblico e l’oblio della nozione di bene comune, anche declassato ad «interesse generale», lascia spazio al proliferare di pretese categoriali e di interessi particolari, le pubbliche autorità si sforzano bene o male di assicurare la coesistenza di queste pretese procedurali che sono contrastanti tra loro e in uno stato di inflazione permanente. «Una politica basata sull’addizione di interessi particolari», osserva Chantal Delsol, «è più simile all’anarchia, cioè a una non politica. La democrazia consiste, al contrario, nel permettere di definire più versioni dell’interesse generale, la rappresentazione di ciascuna viene alternativamente attuata dalla sovranità popolare»17.
«Le moderne democrazie», osserva Alain Caillé, «non sono da considerare altro che un ordine basato sui calcoli razionali dei soggetti coinvolti, interessati in particolare ai loro vantaggi materiali. Ora, agli occhi di una tale concezione, un dono come l’atto di fare politica, è rigorosamente incomprensibile, e perfino totalmente invisibile»18. Questo trionfo dell’economia sulla politica è interpretato dai liberali come un trionfo della libertà, mentre consiste in un’espropriazione di sé stessi, poiché si traduce nell’incapacità in cui le comunità si trovano ora di avere il controllo del proprio destino. Marcel Gauchet descrive questa situazione come le «devastazioni dell’impotenza» e il «festoso abbandono degli ultimi uomini che celebrano la loro impotenza a governarsi»19.
Questa evoluzione antipolitica avviene sulla falsariga della «neutralizzazione» evocata da Carl Schmitt. «Storicamente», ricorda ancora Gauchet, «le democrazie moderne si sono formate sulla base dell’appropriazione del potere pubblico da parte dei membri del corpo politico […] Il loro nuovo ideale è neutralizzare il potere, qualunque esso sia, in modo da porre la sovranità degli individui al sicuro da ogni attacco […] La democrazia dei diritti dell’uomo è così portata, da una forte spinta, a rifiutare gli strumenti pratici di cui ha bisogno per diventare effettiva. Da qui la dolorosa scoperta dell’impotenza pubblica contro la quale inciampa costantemente. Questa impotenza, infatti, è lei che la secerne […] Sta qui la ragione profonda dello scuotimento degli Stati e del principio della loro autorità nella democrazia odierna»20.
In poche parole, incuneata tra l’economia e la morale, l’ideologia di mercato e quella dei diritti umani, la democrazia odierna è sempre meno democratica perché sempre meno politica. L’economia impone la sua legge sotto le spoglie (e nel linguaggio) del diritto. Facendo riferimento a concetti puramente astratti, la democrazia si spoglia infine della sua dimensione territoriale e storica. Le credenze collettive, di origine religiosa, un tempo erano ancora mobilitanti perché ancorate ai territori. La nozione di cittadinanza è anch’essa direttamente associata al territorio particolare in cui si svolge l’esistenza dei cittadini. «L’universalismo fondazionale che opera la democrazia», scrive Marcel Gauchet, «la porta, infatti, a dissociarsi dal quadro storico e politico entro cui si è forgiata […], per definizione limitato. Idealmente, vorrebbe essere senza territorio o passato. La logica del diritto la incoraggia a rifiutarsi di riconoscersi come un’iscrizione nello spazio, i cui limiti sono un insulto all’universalità dei principi a cui aderisce. Rifiuta anche, nella stessa linea, l’inserimento in una storia, che la renderebbe dipendente da una particolarità non meno insopportabile. La democrazia è portata, in altre parole, a non poter assumere le condizioni che l’hanno generata»21. Sotto l’influenza dell’ideologia dei diritti dell’uomo, il principio della democrazia non è più «un cittadino, un voto», ma «un uomo, un voto». La democrazia liberale si confonde con il parlamentarismo e la rappresentanza. È un regime costituzionale basato esclusivamente sul suffragio e sul pluralismo, dove la democrazia non è altro che lo spazio sociale negoziato con lo Stato di diritto. Ora, come non ha mai smesso di ripetere Carl Schmitt, un popolo ha tanto meno bisogno di essere rappresentato se può essere politicamente presente a sé stesso.
Già Rousseau diceva che «quando il popolo ha dei capi che governano al posto suo, qualunque sia il nome che questi capi portano, si tratta sempre di un’aristocrazia»22. Nella democrazia liberale, il popolo costituzionale è sovrano solo nella misura in cui ha la possibilità di acconsentire al potere di coloro che dovrebbero rappresentarlo. La rappresentazione è, tuttavia, solo una situazione provvisoria. «Resa obbligatoria, la delega della sovranità popolare a rappresentanti autorizzati in realtà ad accaparrarsela è chiaramente profondamente discutibile rispetto al principio democratico», ricorda Guy Hermet23. Per questo Althusius, secondo il quale la società globale era definita come un’associazione (consociatio) di corpi articolati tra loro, ammetteva solo una delega di potere sempre revocabile (vicina a quello che oggi chiamiamo «mandato imperativo»). Svincolato da ogni controllo diverso dal voto, il sistema rappresentativo tradisce coloro che pretende di rappresentare; lo sdoppiamento tra rappresentanti e rappresentati spinge inevitabilmente i primi a formare un’oligarchia. Questo tradimento è particolarmente marcato oggi, a causa della rifocalizzazione dei programmi e della scomparsa delle alternative simboleggiate dalla conversione della sinistra alla società di mercato24 e dalla conversione della destra al superamento delle nazioni, a cui si aggiungono anche la neutralizzazione dei risultati del voto in seguito alle direttive di Bruxelles. Oggi tutti sono uniti nel culto dei diritti dell’uomo, nella dialettica dell’avere e del trionfo del denaro, sullo sfondo di uno storytelling, cioè di un vuoto spettacolare e commerciale25.
Un’altra costante della democrazia liberale è il modo in cui tende a denunciare come «antidemocratica» qualsiasi istanza democratica che ecceda la definizione che essa stessa dà di democrazia. Questa denuncia il più delle volte prende di mira le rivendicazioni sociali, ma anche quelle che cercano di dare ai cittadini un potere che va oltre il semplice voto. La partecipazione del popolo alla cosa pubblica è quindi comunemente respinta sulla base della sua «incompetenza»: il potere deve essere riservato a «coloro che sanno», siano essi esperti o governanti che affermano di sapere ciò che conviene al popolo meglio del popolo stesso (come se esistesse una «competenza» in sé, che possa essere astratta dalle sue finalità, come contestava già Aristotele). Costoro sono le stesse persone che, in passato, invocavano il sistema censitario, che avrebbe dovuto proteggerle dalle «classi pericolose»26. La stessa democrazia rappresentativa è stata inventata come una sorta di dispositivo per «filtrare» la sovranità popolare. In ogni caso, si tratta di presentare un’oligarchia come giustificata nell’essere dov’è, quando è solo il prodotto di una storia sociale.
Come rimediare alla crisi della rappresentanza? Alcuni pensano che ci si debba dirigere verso un’estensione radicale della socialdemocrazia. Questa è in particolare la tesi sostenuta da Takis Fotopoulos in un libro che vuole essere una sorta di manifesto a favore di una «democrazia inclusiva». Sostenitore del localismo e della decrescita, Fotopoulos ha fatto dell’eguaglianza economica la condizione per l’eguaglianza politica e ha voluto che il demos diventasse «l’autentica unità della vita economica»27. Presupponendo esplicitamente un’economia senza Stato, senza denaro e senza mercato, critica anche Jürgen Habermas e denuncia il «riformismo» del movimento alterglobalista. Il suo libro contiene una buona critica alla democrazia rappresentativa, che giustamente qualifica come «democrazia senza pericolo per lo Stato moderno». Ma, per definizione, non è l’estensione della socialdemocrazia che può restituire alla politica le sue prerogative. La «socialdemocrazia», che va di pari passo con lo stato sociale, trova la sua origine in Europa nelle riforme di Napoleone III e Bismarck. Risponde ad una domanda incontestabile, ma permette anche di disarmare la protesta rivoluzionaria delle masse, mantenendo l’idea che la «democrazia» consista essenzialmente nella concessione e nella distribuzione di benefici di natura quantitativa. Così facendo, cancella il carattere politico della democrazia e la fa scivolare verso un’amministrazione «esperta» e di pura gestione. La socialdemocrazia consiste nel «comprare il popolo» con vantaggi materiali e aumentare la sicurezza dell’esistenza tra un’elezione e l’altra, facendo risiedere la sua legittimità di esercizio nella sua capacità di dispensare questi vantaggi. È un regime «assicurativo», ma anche suicida, perché le autorità pubbliche non possono rispondere indefinitamente a richieste che seguono una escalation permanente in termini quantitativi, e che, allo stesso tempo, mina le basi della sua stessa legittimità (la capacità di «raggiungere la felicità») che si sono donata e che si regge costantemente su promesse crescenti e sempre più difficili da mantenere. La socialdemocrazia è un buon esempio, da questo punto di vista, di confusione tra democrazia in estensione (superficie) e democrazia in profondità (sostanza). La democrazia estesa rischia di diluire la democrazia. La socialdemocrazia è infatti incapace di consolidare l’orgoglio di essere cittadino; trasforma i membri in assistiti che sognano solo di esserlo sempre di più. Tuttavia, una delle maggiori contraddizioni dell’attuale democrazia dei diritti dell’uomo è che essa rimane, nell’opinione pubblica, fondamentalmente una socialdemocrazia – una democrazia da cui ci si può materialmente aspettarsi ed esigere tutto – mentre non ne ha più i mezzi né la volontà di esserlo. Guy Hermet osserva al riguardo che «l’obbligo in cui la democrazia, come sistema di governo, si è lasciata confinare, ad acquistare in qualche modo il proprio sostegno al prezzo di offerte statutarie, quindi offerte materiali da rinnovare costantemente, colpisce i governi delle società sviluppate nella loro totalità»28. «Continuare con questa tendenza, senza un termine definito», aggiunge, «avrebbe significato che, intorno al 2025 o al 2030, a seconda dei casi, il bilancio globale dello stato sociale avrebbe assorbito tutta la ricchezza prodotta in Europa, senza che nulla rimanesse per l’economia di mercato o la spesa privata dei suoi abitanti»29. Va notato di passaggio che in un’epoca in cui le classi medie vivono nel timore del degrado sociale, il mantenimento dei benefici della socialdemocrazia occupa nella maggior parte dei programmi populisti un posto importante almeno quanto la critica alla tassazione o all’immigrazione. Il divario, in ogni caso, tra il popolo e una Nuova Classe autistica, incestuosa e narcisista, continua ad aumentare. Contrariamente a quanto si ripete negli ambienti reazionari, non è sull’oclocrazia, sul potere del popolo o della massa, che già Platone denunciava, che è sortita la democrazia moderna, ma da una nuova forma di oligarchia, politico-mediatica e finanziaria. Criticare la democrazia liberale non significa quindi denunciare il popolo, ma denunciare le élite»30.
Gauchet evoca «il sentimento generalizzato di espropriazione che pervade la democrazia dei diritti. Il suo meccanismo […] erode inesorabilmente la fiducia dei popoli nelle oligarchie a cui li spinge ad affidarsi»31. Il populismo è una classica reazione a questo divorzio, ma rappresenta al massimo solo una stanza di compensazione. In molti casi appare addirittura complementare a ciò che denuncia, nella misura in cui rafforza inconsapevolmente il potere della Nuova Classe permettendole di sfruttarlo come sua unica alternativa. Nella democrazia liberale, come abbiamo visto, la democrazia non è definita in senso stretto dalla sovranità popolare, dall’attribuzione della sovranità al popolo, ma da una sorta di stato d’animo che valorizza sia l’eguaglianza delle condizioni sia l’indipendenza degli individui che si percepiscono socialmente separati gli uni dagli altri. Sotto l’influenza del liberalismo, l’attuale democrazia mira a organizzare la libertà degli individui, non a far decidere il popolo. Nel migliore dei casi, la democrazia è definita sempre meno come un modo specifico di governo, sempre più come un modo di vivere insieme. Definizione «sociologica» da un lato, definizione politica dall’altro. Ma che ne è del popolo?
Anche Grotius, Hobbes, Pufendorf e Rousseau hanno cercato di mostrare come fosse possibile per gli individui costituirsi come popolo. Nessuno di loro ci è riuscito, perché partendo dal singolo non si può arrivare ad un popolo. Il loro approccio comune è immaginare un atto volontario e razionale la cui attuazione avrebbe portato all’associazione di uomini e alla formazione di una società. Tuttavia, come osserva Bruno Gnassounou, «nessuno è mai riuscito a spiegare come i singoli potessero contrattare con un organismo collettivo che si suppone fosse generato dal contratto stesso. La totalità è qui presupposta. È semplicemente impossibile generare una totalità dagli individui»32, il che equivale a dire che non può esistere un popolo politico se l’uomo non è per sua natura un essere sia sociale che politico. La stessa nozione di contratto rimanda ad un ordinamento giuridico già presupposto. Pierre Rosanvallon fa bene a parlare di «mutazione della cittadinanza»33. È infatti la scomparsa della cittadinanza quella a cui assistiamo oggi, tanto la democrazia attuale diluisce il significato stesso della parola «popolo», che esso sia ethnos o demos, fingendo di aprirsi (cosa che è del tutto incapace) ad un «popolo universale» chiamato a sostituire il «popolo nazionale»34. Il popolo non è una semplice somma di individui, ma non può nemmeno essere sostituito dalla nozione di «moltitudine» che, anch’essa, disperde il tutto in singolarità. Ritornare allo spirito originario della democrazia significa ritornare all’idea di un popolo politico che raggiunge la libertà collettiva attraverso la sua partecipazione agli affari pubblici. Aristotele, più favorevole a un regime misto, definiva già il cittadino democratico per la sua capacità di «partecipare al potere deliberativo e giudiziario»35. Naturalmente, il potere del popolo non può mai essere pienamente realizzato. Risiede prima di tutto in un’aspirazione, in una tensione36. Ma la partecipazione, anche se non può mai essere integrale37, è ciò che permette al popolo di avvicinarsi il più possibile al potere, proprio riducendo il divario tra il potere stesso e il popolo. Attraverso la partecipazione, le persone non solo manifestano il loro potere, ma si rafforzano costantemente nella loro esistenza come popolo e fanno della democrazia la forma compiuta della loro esistenza come popolo. Questo è ciò che Marx ha lasciato intendere nel suo Per la critica della filosofia del diritto di Hegel (1843), quando ha fatto risiedere l’essenza della «vera» democrazia nell’«auto-costituzione del popolo come soggetto»38.
La «società civile» è ciò che si vuole sostituire oggi al popolo. «Lo Stato», scrive Marcel Gauchet […] «tende a trasformarsi in uno spazio di rappresentazione della società civile, senza più superiorità gerarchica nei suoi confronti né alcun ruolo di formazione storica»39. Tuttavia, la società civile è solo una somma di gruppi di interesse. Per sua natura difende solo interessi categoriali, il che le impedisce di sostituirsi allo Stato per formulare un vero progetto collettivo o esercitare una regolamentazione complessiva della società.
L’importanza data alla società civile è infatti un modo per consacrare l’azione di gruppi di interesse e lobby, tutti ugualmente rappresentativi di questa «società civile», tutti inclini a difendere interessi o privilegi categoriali, con un effetto potenziale di determinare non più una tirannia della maggioranza sulle minoranze, ma tirannia delle minoranze sulla maggioranza. L’ascesa della «società civile» equivale da questo punto di vista alla crescente pressione dell’opinione pubblica. La «democrazia dell’opinione» è quella in cui i sondaggi contano più delle vere elezioni e le immagini trasmesse dalla televisione contano più delle idee e persino delle azioni. «Questa dittatura mediatico-sondaggista», ritiene Régis Debray, «trasforma il governo in un manager del quotidiano, orientato verso i presunti desideri dell’opinione pubblica, per anticiparli o prevenirli. Assistiamo così, ad esempio, alla nascita di una diplomazia che ci spinge a occuparci istantaneamente di tutto per non occuparci accuratamente di alcunché, per la quale saltiamo da un’immagine all’altra senza memoria e senza scopo»40. Debray ricorda di passaggio che «nella gerarchia filosofica, l’opinione è il livello più basso del sapere» e che «è l’esatto opposto della convinzione, che non è una questione di assenso, ma di esistenza. Non si muore per un’opinione, si può morire per una convinzione»41.
La democrazia partecipativa ha poco a che fare con la società civile in quanto ciò di cui ha bisogno in primo luogo è uno spazio pubblico, un luogo comune che consenta al popolo di esistere politicamente e di esercitare il suo potere. Lo spazio pubblico è il luogo di articolazione tra demos e polis, il luogo – che lega in quanto luogo – dove la folla diventa popolo. Ovviamente non può essere ridotto a quello della pubblicità, né può essere confuso con la sfera statale. Piuttosto, è legato alla rappresentazione territoriale e geografica. Il significato originario di demos è «terra abitata da un popolo», il che significa che il popolo è connotato da un aspetto tellurico. «In una democrazia», scrive Joëlle Zask, «come produrre unione e unanimità tra volontà, interessi e bisogni individuali differenti? La risposta sensata è il contatto. Ma il fatto è che spesso pensiamo al contatto in termini di prossimità fisica. Gli individui dovrebbero toccarsi in qualche modo. Da qui l’utilità del ragionamento in termini di spazio […] In generale, possiamo dire che è solo quando gli individui sono in contatto tra loro che hanno la possibilità di forgiare idee comuni» (42). Come aveva ben capito Gabriel Tarde, che su questo punto si opponeva a Gustave Le Bon, la despazializzazione della vita politica portava alla sostituzione del popolo con il «pubblico», che Tarde considerava il «gruppo sociale del futuro»43. Tarde non aveva torto. I «pubblici» moderni sono caratterizzati dalla dispersione e dalla mancanza di relazioni faccia a faccia, e la loro vitalità non deve nulla alla convinzione comune o al valore condiviso. Il pubblico non mira all’autonomia, ma all’indipendenza. «Pubblico», secondo questa concezione, non designa nulla di sostanziale o costante.
Un altro errore è considerare lo spazio pubblico come puramente deliberativo e procedurale, alla maniera ad esempio di Jürgen Habermas – che parla significativamente di «sfera pubblica» piuttosto che di «spazio pubblico» –, perché il rispetto delle regole formali e comunicative non dice nulla sul modo di decidere, né sul valore delle decisioni rispetto a ciò che devono determinare. Le regole da sole sono sempre vuote. Come nota molto bene Bruno Gnassounou, «è ovviamente perché si rifiutano, in nome dell’autonomia dell’individuo, di parlare di fini sostanziali che i seguaci degli “spazi di comunicazione” si appellano alle procedure. Ma appellarsi alle procedure […] è soprattutto rifiutare alla comunità di autogovernarsi. Autogovernarsi non consiste nell’imporsi una legge valida perché conforme a una legge superiore, ma nel porsi un fine»44. Tuttavia, fissare una fine presuppone già un accordo sul bene comune.
Quanto sopra aiuta a capire in cosa consisterà probabilmente la «post-democrazia». I due grandi nuovi fenomeni politici sono, da un lato, l’emergere del tema del «governance» e, dall’altro, l’ascesa del populismo, fenomeni che abbiamo già avuto modo di analizzare45. Originariamente derivato da «corporate governance», il tema della governance, in cui Marc Hufty vede il trionfo del «pensiero contabile»46, mira, su scala internazionale, a trasformare i governi in organi di gestione ispirati a metodi economici e ad abbassare essi stessi a il rango degli strumenti subordinati a imperativi economici e soprattutto finanziari. In corrispondenza del «grande sconvolgimento» evocato da Francis Fukuyama, tale concezione si basa sia sulla «società civile», come sostituta del popolo politico, sia sulla «convergenza di scelte su scala internazionale accuratamente segretate con la connivenza dei circoli di governo» (Marcel Gauchet). La governance rompe la tradizionale gerarchia della gestione degli affari pubblici. Lo Stato perde il suo potere simbolico e si ritrova confinato al ruolo di agente regolatore, e assistiamo a decisioni sempre più assunte da attori cooptati (privi di legittimità democratica) sulla base di interessi negoziati ai livelli superiori e, per gli affari locali, si trova in un vago rapporto di consultazione con autoproclamati rappresentanti della società civile. L’inversione del rapporto tra potere e società diventa così totale e porta al primato dell’interesse sul valore, della norma negoziata sulla legge votata, e quindi del giudice sul legislatore. Il modello adottato è quello dell’allineamento della conduzione della cosa pubblica alla gestione della cosa privata, basato sulla convinzione che, «in tutti gli ambiti, le società, così come le relazioni tra Paesi, possono essere governate da meccanismi di bilanciamento automatico simili a quelli del mercato economico», e sulla convinzione «che le grandi questioni di portata collettiva debbano sfuggire alle peregrinazioni di ogni volontà maggioritaria, per obbedire a scelte razionali o a contrattazioni al vertice condizionate da mutamenti di equilibri al di fuori del controllo degli Stati»47. Infine, ben inteso, «la governance è estranea alla realizzazione di un progetto più o meno a lungo termine volto a soddisfare un bene comune divenuto impensabile o una volontà maggioritaria considerata potenzialmente oppressiva»48.
La governance punta alla privatizzazione della società globale sul modello del mercato. Tuttavia, il mercato non si combina bene con la democrazia. Richiede la rimozione dei confini, mentre la democrazia può essere esercitata solo in un dato contesto politico. Implica che i meccanismi economici si emancipino da ogni supervisione politica orientata al bene comune49. Lo sviluppo dei mercati è, inoltre, storicamente parlando, la diretta conseguenza della separazione tra il lavoratore e i mezzi di produzione – cioè dell’autonomizzazione dell’economia – separazione che risale al periodo degli enclosures (recinzione dei terreni prima comuni ad opera della borghesia e della nobiltà, NdT) durante la rivoluzione industriale inglese, che ha portato alla situazione per la quale due fattori fino ad allora considerati non negoziabili, l’uomo e la terra, hanno iniziato ad essere considerati come «beni economici» prodotti in vista della loro immissione sul mercato50. Infine, l’esperienza storica mostra anche che il capitalismo può benissimo coesistere, non solo con un regime puramente oligarchico, ma anche con un regime autoritario (ieri in Cile, oggi in Cina), cosa che smentisce l’idea che l’economia di mercato creerebbe automaticamente le condizioni per la democrazia. L’uso sempre più ripetitivo della parola «governance» attesta, conclude Guy Hermet, «una volontà di reprimere il concetto di governo, con la sua connotazione politica, sinonimo di priorità dell’autorità pubblica e dell’interesse generale su ciò che è interesse privato e sugli attori privati. La governance è la fine della politica e con essa della democrazia civica»51. Obbedendo a «un principio antipolitico che comanda di non invitare persone ritenute ignoranti e volubili ad esprimere il loro punto di vista, […] la nozione di governance corrisponde all’instaurazione di un sistema di controllo che non sarebbe più realmente un regime politico»52.
La crisi attuale della democrazia è soprattutto una crisi della politica
Alain de Benoist
Traduzione a cura di Manuel Zanarini
Note
1 «Non si può escludere che, politicamente, si apra davanti a noi una nuova era: quella della post-democrazia», scrive Christian Savés (Sépulture de la démocratie. Thanatos et politique, L’Harmattan, Paris 2008, p.10). La tesi qui presentata è che la democrazia sia «vittima del proprio istinto di morte»: «Il suo thanatos freudiano la trascina inesorabilmente verso il basso, […] la spinge inesorabilmente a lavorare alla propria rovina» (p. 12). Tuttavia, resta da dimostrare che la democrazia sarebbe intrinsecamente nichilista. La stessa espressione si ritrova nel titolo del piccolo libro recentemente pubblicato da Karlheinz Weißmann, Post-Demokratie (Antaios, Schnellroda 2009). Più che il futuro della democrazia, però, l’autore si preoccupa soprattutto del futuro dello Stato. Di passaggio rileva che «la debolezza di tutti i discorsi sulla post-democrazia sta nella timidezza nell’affrontarne le conseguenze» (p. 67).
2 Questa è la tesi brillantemente avanzata da Guy Hermet: «Come i nostri antenati del 1775 o del 1785, ci avviciniamo alla fine di un ‘futuro Ancien Regime”, di un regime morente, destinato a cedere il passo ad un altro, un universo politico ancora privo di nome, ma già ampiamente abbozzato nella pratica. Come loro, siamo alle porte del Prochain Regime» (The Winter of Democracy or the New Regime, Armand Colin, Paris 2007, p. 13). Vedi anche la sua intervista pubblicata su Catholica dal titolo «Democratic Twilight»: “Il nostro inverno attuale, il nostro inverno della democrazia nasconde già un altro regime” (Estate 2008, p. 27).
3 Marcel Gauchet, La révolution moderne e La crise du libéralisme, 1880-1914, Gallimard, Paris 2007.
4 Cécile Defaut, Nantes 2007.
5 La démocratie d’une crise à l’autre, op. cit., p. 25.
6 Ibid., p. 27.
7 È sotto l’influenza della concezione liberale della democrazia che la classica contrapposizione tra regimi democratici e regimi totalitari – dove il totalitarismo è ritenuto la negazione stessa della democrazia o quantomeno ciò che rappresenta la sua forma politica più fortemente distante – è stata posta come insuperabile. I regimi più totalitari, tuttavia, avevano anche aspetti innegabilmente democratici. Emmanuel Todd, citando lo storico americano David Schoenbaum (The Brown Revolution), ricorda che «il nazismo, nonostante il suo discorso retrò sul ritorno al “terra e sangue”, rappresentò per la Germania il momento cruciale della democratizzazione. In un senso sociale molto particolare, l’esperienza nazionalsocialista è stata l’equivalente della Rivoluzione francese, con la sua versione della notte del 4 agosto e l’abolizione dei privilegi (Après la démocratie, Gallimard, Parigi 2008, pp. 121-122).
8 Marcel Gauchet, La démocratie d’une crise à l’autre, op. cit., p. 35.
9 La crise du libéralisme, 1880-1914, op. cit., p. 18.
10 Chantal Mouffe, The Democratic Paradox, Verso, London 2000, pp. 2-3.
11 Marcel Gauchet, La démocratie d’une crise à l’autre, op. cit., p. 21.
12 Ibid.
13 Ibid., p. 22.
14 Ibid., pp. 38-39. Christian Savés parla anche di una «vera decostruzione della democrazia attraverso il diritto, il diritto in generale e i diritti dell’uomo in particolare» (Sépulture de la démocratie, op. cit., p. 71).
15 The Democratic Paradox, op. cit., pp. 95-96.
16 La démocratie d’une crise à l’autre, op. cit., pp. 42-43.
17 « La démocratie asphyxiée », in Valeurs actuelles, 10 luglio 2008, p. 22.
18 Alain Caillé, Théorie anti-utilitariste de l’action. Fragments d’une sociologie générale, Découverte, Parigi 2009, p. 143.
19 La révolution moderne, Gallimard, Parigi 2007, pp. 19 et 25.
20 La démocratie d’une crise à l’autre, op. cit., pp. 47-48.
21 Ibid., p. 46.
22 Du Contrat social, III, 15.
23 Guy Hermet, L’hiver de la démocratie ou le nouveau régime, Armand Colin, Parigi 2007, p. 185.
24 Tutti i risultati elettorali mostrano che la sinistra e l’estrema sinistra ottengono ora i loro risultati migliori nelle grandi città abitate dalla nuova classe medio-alta, e non più nei quartieri popolari. Ciò che Christophe Guilluy, autore dell’Atlante delle nuove fratture sociali in Francia, riassume con una formula: «La sinistra è forte dove il popolo è debole» (20 minutes, 18 marzo 2008).
25 «Lo storytelling, è la politica della distrazione, della sostituzione del discorso o del dibattito politico con storie divertenti, buffe o scabrose; dell’azione politica con l’evasione; della sostituzione delle notizie con degli shows; del crepuscolo del politico estromesso dall’intrattenitore o, se necessario, dalla persona attraverso la quale si verifica lo scandalo » (Guy Hermet, « Crépuscule démocratique », op. cit., p. 34).
26 Nel 1791, 44.000 grandi elettori privilegiati scelti tra i più tassati, cioè i più ricchi, detenevano la maggior parte del potere. Non erano più di 25.000 nel 1794. Guy Hermet ha osservato a questo proposito che «la proto-democrazia medievale è stata repressa per tre ragioni: l’ostilità dei monarchi assolutisti e dei despoti illuminati contrari alle manifestazioni di autonomia dei loro sudditi; i timori della borghesia e dei proprietari terrieri, spaventati dall’ipotesi di un governo del popolo; e dai pregiudizi dei filosofi e dei giuristi dell’Illuminismo, che già si immaginavano le persone esercitanti il potere come agenti obbligati dalle moltitudini ignoranti» (L’hiver de la démocratie ou le nouveau régime, op. cit., p. 26). Jacques Julliard dichiara inoltre: «Almeno in Francia, la democrazia rappresentativa è stata concepita fin dall’inizio come un baluardo contro il suffragio universale: una volta che i cittadini hanno scelto i loro rappresentanti, il loro dovere è tacere. Questo è ciò che non accettano più» (Le Monde, 1-2 giugno 2008, p. 15).
27 Takis Fotopoulos, Vers une démocratie générale. Une démocratie directe, économique, écologique et sociale, Seuil, Parigi 2001, p. 205.
28 L’hiver de la démocratie ou le nouveau régime, op. cit., p. 63.
29 Ibid., p. 64. Su questo tema, vedere anche Danilo Zolo, Complessità e democrazia per una ricostruzione della teoria democratica, Giappichelli, 1987.
30 Vedere Emmanuel Todd, Après la démocratie, op. cit., cap. 3, « De la démocratie à l’oligarchie », pp. 67-93. «Il vero dramma per la democrazia», scrive Todd, «non sta tanto nell’opposizione tra le élite e le masse, quanto nella lucidità delle masse e nella cecità delle élite.» (p. 223).
31 La démocratie d’une crise à l’autre, op. cit., p. 45.
32 Bruno Gnassounou, « Se gouverner soi-même ? », in Isabelle Koch e Norbert Lenoir (éd.), Démocratie et espace public : quel pouvoir pour le peuple , Georg Olms, Hildesheim 2008, p. 119.
33 Pierre Rosanvallon, La contre-démocratie, Seuil, Parigi 2006.
34 Sulla dialettica tra demos e ethnos, vedere le belle pagine che Régis Debray ha dedicato in Le moment fraternité (Gallimard, Parigi 2009, pp. 340-349).
35 Politique, III, 1, 1275b 18-19.
36 Norbert Lenoir, in questo caso, non ha torto nell’affermare che «la democrazia è sia il potere impossibile del popolo sia il tentativo di creare un potere di intervento politico dei cittadin » (« Démocratie : le peuple excédentaire et les voix du peuple », in Isabelle Koch et Norbert Lenoir, ed., Démocratie et espace public : quel pouvoir pour le peuple, op. cit., p. 92). Le altre opinioni dell’autore mi sembrano discutibili.
37 Aristotele, ancora lui, notava anche che «tutti trovano più piacevole coltivare la propria terra che occuparsi di politica e fare il magistrato». (Politica, IV, 13, 1297b 5).
38 Sulla partecipazione si veda anche Benjamin R. Barber, Strong Democracy. Participatory Politics for a New Age, University of California Press, Berkeley 1984 ; Volker Gerhardt, Partizipation. Das Prinzip der Politik, C.H. Beck, Monaco 2007.
39 Marcel Gauchet, La religion dans la démocratie. Parcours de la laïcité, Gallimard, Parigi 1998, p. 113.
40 Le Monde, 1-2 giugno 2008, p. 15.
41 Ibid.
42 Joëlle Zask, « Le public est-il un espace ? Réflexion sur les fonctions des publics en démocratie », in Isabelle Koch e Norbert Lenoir (ed.), Démocratie et espace public : quel pouvoir pour le peuple ? , op. cit., p. 81.
43 Gabriel Tarde, L’opinion et la foule, PUF, Parigi 1989 [1898-99], p. 38.
44 « Se gouverner soi-même ? », art. cit., p. 124.
45 Si veda il dossier sulla governance pubblicato sul n° 124 d’Eléments (primavera, 2007, pp. 31-44) e il dossier sul populismo apparso sul n° 112 (primavera 2004, pp. 19-37).
46 Cf. Marc Hufty, La pensée comptable. Etat, libéralisme, nouvelle gestion publique, PUF, Paris 1998.
47 L’hiver de la démocratie ou le nouveau régime, op. cit., pp. 202 et 212.
48 Ibid., p. 204.
49 L’economista Robert Reich, autore di Supercapitalisme. Le choc entre le système économique émergent et la démocratie (Vuibert, Parigi 2008), fa notare che «nessuna azienda è disposta a sacrificare il proprio utile per il bene comune» («La démocratie est malade du supercapitalisme », in Sciences humaines, marzo 2008, p.
50 Si veda Karl Polanyi, La Grande Transformation, Gallimard, Parigi 1983 [1944]. Si veda anche Jérôme Maucourant, « Marché, démocratie et totalitarisme », in Peut-on critiquer le capitalisme?, La Dispute, Parigi 2008, pp. 107-122.
51 « Crépuscule démocratique », op. cit., p. 34.
52 L’hiver de la démocratie ou le nouveau régime, op. cit.