Cosa ci dice Pier Paolo Pasolini (1922-1975)? Se la vitalità è disperata, la disperazione è vitale. Non c’è altro modo per opporsi all’inferno programmato delle società sempre più postumane, che si ergono sulle rovine dell’antico mondo degli uomini e delle bestie, nella notte del sacro.
Non ci sono mai state così poche ragioni per parlare di rivoluzione come per quelle degli anni ’60 e ’70. L’unica rivoluzione che c’è stata e che ha provocato la cancrena e la putrefazione del pianeta, è stata quella del consumismo di massa e dell’edonismo. Il termine «rivoluzione» non ha alcun senso in quei casi e non fa cogliere la novità del fenomeno, tanto che Pasolini preferisce parlare nei suoi Scritti corsari di «cataclisma antropologico» o ancora di «mutazione antropologica», come nel passaggio da Homo erectus a Homo sapiens, ma ai giorni d’oggi esso ha seguito la direzione inversa.
Ciò ha sorpreso solo i suoi lettori superficiali, ma di fatto nel ‘68 (Pasolini) si era schierato a favore dei poliziotti (provenienti dal mondo operaio e contadino) contro gli studenti e gli altri «figli di papà». La «rivoluzione» studentesca gli sembrava non avanzare alcuna rivendicazione sociale. Fu una rivolta generazionale, un’uscita inquieta dall’adolescenza, molto più vicina al grande concerto rock che all’insurrezione operaia. Prima rivoluzione senza operai, senza poveri, senza morti.
La contestazione ha alla fine rafforzato il processo di normalizzazione. La funzione degli studenti è consistita nel desacralizzare l’autorità dei vecchi mondi. A partire da ciò la società dei consumi ha potuto dispiegarsi a suo agio, sulla tabula rasa del passato, senza i divieti che fino ad allora l’avevano imbrigliata. Il processo al passato e quello ai padri sono quindi simili a una crisi di crescita della borghesia. Le nuove generazioni di borghesi si sono rivoltate contro la paleo-borghesia patriarcale, fondamentalmente inadatta alle nuove condizioni di vita, al progresso tecnologico e alla rivoluzione dei modi di produzione e di consumo. Con il senno di poi, l’innesto della controcultura su una cultura borghese liberata dal suo paternalismo (resa inutile dalla meccanizzazione e poi dalla delocalizzazione della produzione) lo dimostra abbondantemente: matrimonio tra hippy e yuppie, liberali e libertari, azionisti e rivoluzionari, per finire con questa figura tipica di Molière: il borghese-bohémien.
Quando la norma non vincola più il desiderio
Il regno del consumismo rende inutile l’antico prestigio della religione. Il consumismo è magico, nella sua abbondanza e nella sua prodigalità. Offre la manna celeste e la moltiplicazione dei pani. Quale Dio può offrire un paradiso così tangibile? Questa è l’idolatria del nostro tempo. Il consumismo ha omogeneizzato le differenze di classe in identici riflessi di acquisto. Così appiattite, le tradizioni culturali hanno rinunciato alla loro eteronomia in cambio del diritto di accesso alla società dell’abbondanza. L’individualismo non è altro che la facoltà di compiere a qualunque latitudine e secondo una logica prevedibile, e quindi facilmente sfruttabile, sempre lo stesso gesto dell’acquirente, sotto l’apparenza di differenze marginali che la moda concede.
Grazie ai buoni uffici della sinistra, il capitalismo ha così potuto cancellare le mediazioni al desiderio. L’accesso al divertimento è stato disinibito. Freud ci ha fornito un discorso e dei concetti particolarmente illuminanti per decifrare un tale meccanismo. Fino ad allora, le società funzionavano sulla colpa, sulla cattiva coscienza, sul sentimento di vergogna individuale, che rendeva disonorevole tutta una serie di comportamenti. Il «Super-Io», in termini freudiani, circoscriveva l’«Es»: la norma vincolava il desiderio.
Tale era ancora la società (fino agli anni ’50) in cui nacque Pasolini: borghese, farisea, clericale e fascista. Società perfettamente predisposta al linciaggio di un uomo come lui. «Guardo con l’occhio /d’una immagine gli addetti al linciaggio. /Osservo me stesso massacrato col sereno/ coraggio di uno scienziato…». Potrebbe giustamente paragonarsi ai neri americani e considerare il razzismo primario della società italiana contro di lui. In un certo senso, è stato l’ultimo condannato a morte, poco prima dell’abolizione della pena capitale e dell’avvento della liberazione sessuale. Pochi autori sono stati perseguiti e condannati tanto quanto lui, ma queste molestie giudiziarie e morali sono state un preludio alla revoca di tutti i divieti. Ci si stava spostando da una società repressiva a una società del divertimento.
«Ho sbagliato tutto»
Poiché misurava la sessualità con il metro della sua omosessualità, sopravvalutava enormemente il sesso. Prendendo la parte per il tutto, peccò di metonimia. Poco prima di morire, lo ammise senza mezzi termini: la funzione ha ipertrofizzato l’organo in lui. Sebbene ritorni costantemente sull’opera di Freud, è chiaro che sembra aver subito soprattutto l’ascendente del pansessualismo di Wilhelm Reich, per molti aspetti l’anti-Freud. Il protagonista di Teorema, uscito nelle sale nel 1968, è inequivocabilmente un Cristo reichiano, un grande liberatore sessuale che avrebbe letto Rimbaud piuttosto che il profeta Geremia.
Volendo sfuggire alla maledizione della storia e del peccato originale, Pasolini ha ceduto al sogno di un mondo incondizionato, autogenerato, senza filiazioni, senza debiti. Si sbagliò per quanto potesse sbagliarsi, in modo massiccio, colpevolmente. Con uno zelo apostolico e una preoccupazione di evangelizzare che aggrava il suo caso. «Ho sbagliato tutto», così inizia il suo ciclo di Poesie in forma di rosa. Lo dirà e lo ripeterà ovunque, come rimorso lancinante della coscienza. Avendo voluto strappare il sesso alla norma, gli diede (al solo sesso dell’uomo) poteri taumaturgici. Il miracolo è particolarmente visibile nella Trilogia della Vita. Quando si passa dalla Trilogia della vita al suo ultimo film, Salò o le Centoventi giornate di Sodoma, c’è una sorta di rivoluzione copernicana, senza diritto di seguito. Da solare, il sesso diventa un astro nero. Da Eros si passa a Thanatos, una forza oscura, distruttiva e letale. Salò è il testamento cinematografico per antonomasia del poeta, l’ultimo atto di una lunga serie di abiure.
Non c’è liberazione sessuale. Possiamo solo liberarci dalle illusioni della liberazione sessuale, se non dalla liberazione stessa, a meno che non rischiamo di incorrere nella sua violenza. Pasolini ha avuto un’esperienza che è mancata alla sua generazione intellettuale. E’ disceso nei sotterranei della società e ha intravisto il mostro che stava prendendo forma: l’embrione nascente della «nuova gioventù» (a cui si rivolge nelle sue Lettere luterane), quella nata con la società dei consumi e che ha conosciuto solo il desiderio senza censura e la violenza senza linguaggio, prefigurando, con il suo conformismo aggressivo e la sua inesorabile clausura, il mondo di domani.
Discendere agli inferi
È in Medea che la nostalgia di Pasolini «del mitico, dell’epico e del sacro» è più visibile ed è sempre in Medea che egli ci offre la sua concezione più completa della violenza. La tragedia di Euripide è solo un pretesto per svelare ciò che separa due mondi antagonisti: quello arcaico e quello moderno. In uno, la violenza è sacra e rituale; nell’altro è indifferentemente nichilista, sadica e funzionale. È in questo mondo già disincantato – e in ultima analisi borghese – che la nuova gioventù annuncia i tratti della nuova società che Pasolini prevede. Li intravede attraverso la decadenza della vecchia figura del teppista, questo ragazzo delle periferie di città ancora preindustriali, il ragazzo di vita, di cui era l’etnografo per eccellenza. Nell’intervallo che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, Pasolini assistette alla liquidazione del mondo antico di Caravaggio e Accattone, cacciato a favore delle marche e delle nuove divise della ribellione. La società dei consumi è un penitenziario. «I personaggi principali di questo penitenziario sono i giovani», i quali raccontano a questa società della sua totale incapacità di includerli in un futuro comune e quindi in qualsiasi avvenire.
Pasolini nella sua ultima intervista ha avvertito: «Non modererò i miei termini: sto discendendo agli inferi e so cose che non sembrano turbare la vostra tranquillità. Ma attenzione. Anche in voi sta salendo l’inferno. […]. Non rimarrà a lungo solo l’esperienza intima e rischiosa di chi ha assaporato, per così dire, la “vita violenta”. Non fatevi illusioni».
C’è un tema che ricorre spesso, in Accattone, all’inizio di Angeli distratti, nelle poesie, ed è un morto, che sta guardando dall’altra parte dello specchio, in fondo al tunnel. Da qui l’intensità della sua doppia visione. In La divina mimesi dice dell’«autore», in questo caso lui stesso, che «è stato ucciso con un bastone l’anno scorso a Palermo». Pasolini non poteva suicidarsi (ci pensò quando fuggì a Roma nel 1949, quando era processato per corruzione di minori), poteva solo essere ucciso. Voleva morire, ma per mano degli Dei, come un eroe mitologico, perché ai suoi occhi il mito è l’unica realtà che conta. Nel suo essere profondo, Pasolini appartiene al mitocosmo. È un eroe di un altro tempo e di una realtà che i moderni hanno perso. Crede nell’azione drammatica della morte. La morte è l’inizio della vita del mito. Scrive in L’Empirismo eretico, a proposito dell’assassinio di Kennedy: “La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: […]. E’ solo grazie alla morte, che la nostra vita ci serve ad esprimerci».
Orfeo immolato
L’uccisione di Pasolini, avvenuta nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 su una spiaggia di Ostia, ci rivelò ciò che già presentivamo: il sommamente umano e il mostruosamente disumano di questo destino, nel senso nietzschiano della parola. Basta leggere freddamente il referto dell’autopsia. La scena rievoca con la sua macabra liturgia la grande messa nera di Salò o le centoventi giornate di Sodoma: «Le dita della mano sinistra tagliate e fratturate. Mascella sinistra rotta. L’orecchio destro è tagliato a metà, il sinistro completamente strappato. Ferite alle spalle, al petto: con i segni di pneumatici della sua macchina… Tra il collo e la nuca, una lacerazione orribile. Sui testicoli, ecchimosi ampia e profonda. Dieci costole rotte, oltre allo sterno, fegato lacerato in due punti, cuore lacerato…».
Pier Paolo Pasolini è morto come ha vissuto. Come un semidio. Consegnato al massacro dell’opinione pubblica, con la complicità di Dei gelosi, dilaniato dalle furie, massacrato dalle menadi. Orfeo immolato, il cui canto non sta per estinguersi, ma che attanaglia il cuore e fa stringere i pugni agli uomini. I semidei sono mortali, ma parlano ancora ai sopravvissuti. Cosa dicono alla fine? Se la vitalità è disperata, la disperazione è vitale. Non c’è altro modo per opporsi all’inferno programmato dallo sviluppo, in società già postumane, che si ergono sulle rovine dell’antico mondo degli uomini e delle bestie, nella notte del sacro.
François Bousquet
(François Bousquet, Revue Éléments, “Pasolini et la nostalgie « du mythique, de l’épique et du sacré » (2/2)”, 13 aprile 2022)