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Sociologia

Strategia della paura su uno sfondo di una paura archetipica di Michel Maffesoli (1/2)

I tempi difficili sono momenti in cui si elaborano, segretamente, grandi cose. Le turbolenze sociali ne sono testimonianza. Al di là o al di sotto delle istituzioni ufficiali, occorre essere attenti a un vociferare, che si esprime a mezza voce, col quale si cerca di dire e di far vivere un’autentica trasfigurazione della vita nella società. È, inoltre, interessante notare che ciò assume sempre un aspetto apocalittico. Non dimentichiamo che, nel suo senso etimologico, l’apocalisse è, molto semplicemente, una rivelazione. Rivelazione di ciò che sta cessando e, allo stesso tempo, ciò che sta nascendo.

«I nomi sono inseparabili dalle cose» (Blaise Pascal)

I tempi difficili sono momenti in cui si elaborano, segretamente, grandi cose. Le turbolenze sociali ne sono testimonianza. Al di là o al di sotto delle istituzioni ufficiali, occorre essere attenti a un vociferare, che si esprime a mezza voce, col quale si cerca di dire e di far vivere un’autentica trasfigurazione della vita nella società. È, inoltre, interessante notare che ciò assume sempre un aspetto apocalittico. Non dimentichiamo che, nel suo senso etimologico, l’apocalisse è, molto semplicemente, una rivelazione. Rivelazione di ciò che sta cessando e, allo stesso tempo, ciò che sta nascendo. Diventa sempre più evidente che siamo in transito verso un altro modo di stare-insieme. Per dirla in termini più formali, stiamo vivendo una transizione epocale. E questo, che è normale, genera paura e tremori. Tali cambiamenti fanno sì che i poteri in essere rafforzino i loro atteggiamenti.

Di fronte alle mutazioni, la tentazione del potere spaventato è quella di schiavizzare

Da qui la tentazione della schiavitù, l’ingiunzione alla sottomissione e il più delle volte la tirannia sanitaria. Infatti, è proprio perché i regimi in atto temono questo cambiamento che inducono, in maniera autoritaria, un senso di paura. Questa è una costante antropologica.

Così, nel suo classico La paura in Occidente, lo storico Jean Delumeau osserva che «nell’Europa della prima età moderna, la paura è presente ovunque». Precisando che essa provoca il panico a causa delle esagerazioni delle varie autorità pubbliche.1 È lo stesso in questa fine della modernità. L’oggetto della paura è certamente variabile. Ma dal lupo mannaro alla pandemia, la struttura è identica: esagerare la paura della fine richiamando le esigenze specifiche della sottomissione.

La fine del Medioevo e l’inizio dei tempi moderni giocarono sulla paura dell’Inferno e del Purgatorio e svilupparono i mezzi per sfuggirvi. Ma dopo l’avvento della filosofia dell’Illuminismo, il Potere Istituito ha operato per salvare il mondo al posto di Dio, proponendo una salvezza terrena: quella del benessere senza prospettive a lungo raggio. Resta il fatto che, come in ogni clericalismo, dietro un discorso irenico, si nasconde il desiderio feroce di imporre un modo di essere e di pensare la cui caratteristica essenziale è quella che Durkheim chiamava «conformismo logico». Vale a dire, semplicemente, un unilateralismo causa-effetto dell’«uomo unidimensionale». O per dirla più semplicemente, un robot obbediente ai comandi. (Bernanos, La rivoluzione della libertà. La Francia contro i Robot).

Ma l’eccessiva secolarizzazione segna il passo. Il sacro, nelle sue diverse forme, sembra ritornare. E per molti versi, la crisi sanitaria proclamata a gran voce dalle élite al potere si rivela nient’altro che una crisi spirituale di grande portata. Cosa che succede, nell’altalena della storia dell’umanità, ogni volta che un’epoca volge al termine, in attesa di un nuovo Rinascimento.2 Forse possiamo applicare alla situazione attuale ciò che nel cattolicesimo tradizionale veniva specificato per segnalare l’annullamento di un matrimonio: «sanatio in radice», guarigione alla radice. Ci sono molti indizi che indicano la fine del matrimonio di Prometeo con la modernità. Guarigione (sanatio) che permette un nuovo matrimonio, quello di Dioniso e la postmodernità.

Congedare Cartesio? 

Questa notazione metaforica richiama l’attenzione sul fatto che nella resistenza vis-a-vis alla paura indotta dalla tirannia sanitaria si sta delineando una rivoluzione essenziale. Quella del rifiuto del dualismo – corpo/spirito, natura/cultura – che fin da Cartesio aveva plasmato il pensiero e l’azione della modernità. Quella del rifiuto dell’esclusione del «terzo». Vale a dire che la natura umana è complessa e che la «terza parte», quella della finitezza, fa parte della natura. Su questo torneremo più avanti. Senza ridurla alla sua dimensione sanitaria, l’attuale crisi di civiltà è l’inizio di un vasto processo di resistenza espresso in disaccordo con le élite. Resistenza che esprime gradualmente scetticismo o addirittura ribellione verso le varie strategie della paura. È ancora solo un formicolio interiore, ma, come testimoniano i social network, esso è tutt’altro che trascurabile. Illustra questa circolarità delle élite che Chateaubriand ha descritto così bene con l’accuratezza che sappiamo avesse. «L’aristocrazia conosce tre età successive: l’età della superiorità, l’età del privilegio, l’età della vanità. Uscendo dalla prima degenera nella seconda e si spegne nell’ultima».3 Basta trasferire tale osservazione alla situazione contemporanea per apprezzarne l’esattezza. Non c’è niente di nuovo, ma si può dire in un modo nuovo. Data la molteplicità dei luoghi comuni che quotidianamente si riversano sulle persone che non possono farne a meno, mi accontenterò nelle pagine seguenti di alcuni rimaneggiamenti meditativi. Note marginali, quella che nella tradizione classica viene chiamata «scholia», che permettono di chiarire il testo scritto dal Potere Costituito. E mostra il linguaggio menzognero che ne è la caratteristica dominante.

Il politicamente corretto come un insieme di pensieri routinari

Il discorso ufficiale, quindi, sia quello del potere e quello dello psittacismo mediatico, si sforza di attuare un insieme di rappresentazioni che nasconda la realtà quotidiana. Non possiamo mai ripeterlo abbastanza, quello che chiamiamo il dominante politicamente corretto nei periodi del crepuscolo, è solo un insieme di pensieri routinari. Vale a dire una tendenza irrimediabile a censurare informazioni che non corrispondono alla «doxa», all’opinione dominante.

Facciamo alcuni esempi di questa riscrittura: in primis il termine pandemia, che indica un’epidemia presente in tutti i continenti. Certamente. Ma non confondiamo il numero di casi di persone contagiate, ma non malate, con il tasso di malati, che normalmente definisce un’epidemia (Laurent Toubiana). Abbiamo confuso dall’inizio dell’episodio virale, i malati e morti di Covid con i malati e morti con Covid. Peggio ancora, non stiamo forse agitando le paure più ancestrali parlando di bambini malati quando in tutto e per tutto ci sono stati meno di una dozzina di bambini morti o affetti da questa malattia? Torniamo ai momenti precedenti la «grande pandemia». L’episodio dei Gilet Gialli in Francia non manca di ricordare questo episodio rivoluzionario che fu «la Grande Paura». Vale a dire, una rivolta delle classi popolari contro i privilegi, altre tasse e prelievi signorili. Le classi dirigenti tremavano davanti alla messa in discussione dei simboli del potere, dell’Arco di Trionfo, dei Ministeri, dell’Eliseo stesso. Non possiamo non vedere una sorta di vendetta nell’atteggiamento del potere di fronte alla pandemia: il «siamo in guerra» del Presidente suona come una sorta di strategia della Sacra Unione che soffoca tutte le rivendicazioni sociali. Questa è la tattica stessa del potere: sviluppare una strategia di paura congiunturale sullo sfondo della paura che è un  archetipo umano insuperabile. Per dirla in termini sia semplici che illuminanti: «la paura è nelle nostre viscere».4 Ma le viene accordata primaria importanza in tempi in cui prevale la povertà spirituale.

La strategia della paura

Questa è la vertigine dell’era moderna. Un mondo frenetico dove si dovrebbe produrre per vivere, e invece si deve vivere per produrre. Il leitmotiv del «potere d’acquisto», ripetuto allo sfinimento da politici bisognosi di idee, ne è la perfetta espressione. Non dimentichiamo che «dalla ricchezza viene la mancanza» (Heidegger). Ed è in questi momenti di mancanza spirituale creata dall’abbondanza che la strategia della paura si esaspera. Paure cicliche di fronte a malattie, scarsità di cibo, guerre o persino aumenti di tasse o imposte. La storia non manca di esempi in questo senso. E molti fenomeni contemporanei, quello del «Covid» in particolare, lo illustrano alla perfezione.

Questa esacerbazione della paura archetipica genera fenomeni regressivi: regressione del pensiero, come testimoniato dalla nullità delle analisi politiche o giornalistiche; regressione dell’affettività, l’isolamento, i gesti di barriera, i confinamenti, sono gli esempi lampanti; per non parlare del moltiplicarsi di fobie di vario genere. La paura strutturale diventa in questi momenti paura dell’altro e questo porta al disadattamento. Si diventa inadatti a sé stessi, agli altri e al mondo nel suo insieme. Ne è testimonianza la strana inversione dei rapporti generazionali che ha caratterizzato la lotta «anti-covid». Sappiamo che la tutela dei bambini, cioè la salvaguardia della specie, è una costante nei rapporti umani. Il «prima le donne e i bambini» dei navigatori ne è il paradigma. Tuttavia, in questa pandemia, curiosamente, nessuno si è preoccupato della sicurezza e del benessere dei bambini. Anzi. Non sono stati designati fin dall’inizio come possibili vettori di contaminazione? Non è stato loro insegnato, prima ancora di averne capito l’utilità, di tossire nel gomito, smettere di baciarsi o anche solo avvicinarsi ai nonni e persino sono stati lasciati soli in cucina a mangiare il loro tronchetto di Natale? Fino a poco tempo fa, il «Mr. Vaccino» del Governo, riconoscendo la forte resistenza dei genitori a iniettare ai propri figli un prodotto i cui effetti a lungo termine non sono noti e che non porta loro alcun beneficio specifico, non ha esitato a consigliare ai bambini/giovani «non vaccinati» di fare a meno dei nonni durante l’estate. Mentre all’inizio della pandemia non abbiamo esitato a «stigmatizzare» gli anziani a rischio consigliando loro di non uscire durante i periodi di contaminazione, terrorizziamo i bambini senza vergogna e distruggiamo quello che è la base stessa della vita sociale, ovvero la trasmissione intergenerazionale.

Una mascherata generalizzata

A questo proposito, è interessante notare che questo disadattamento alla vita sociale va di pari passo con una mascherata generale. La maschera traduce solo esteriormente l’angoscia fondamentale che attanaglia l’uomo durante la vita nel suo sviluppo. La maschera è solo una difesa illusoria contro la paura. E in realtà è il modo più sicuro per diffondere la paura. L’esistenza quotidiana somiglia in questo tempo a un carnevale veneziano generalizzato, in cui si gioca ad avere paura perché si è interiormente tormentati da una paura insuperabile. Quella della natura delle cose. Che fa in modo, per parafrasare Lucrezio, che non ci sia giorno che sia seguito dalla notte e nessuna notte seguita dall’alba «che non abbia udito fiori mescolati a lamento, compagni dolorosi di morte e di nera fine». (De natura rerum, II, 578).

Insomma, il nome è inseparabile dalla cosa. La “cosa” nella materia è il sentire e la realtà della finitezza a cui bisogna adattarsi. Tutta l’arte è saper vivere ogni giorno la propria morte, ritualizzarla senza esserne ossessionati. L’esacerbazione della paura traduce proprio, in certi momenti, l’incapacità di abituarsi a ciò che è inevitabile! Nella storia non mancano, però, le manifestazioni di quella che viene chiamata «l’arte di morire bene». Questo è il tema della «buona morte» che il cattolicesimo ha saputo sviluppare. Lo testimonia il culto mariano della Madonna della Buona Morte a Saint Hilaire a Poitiers. Questa ars moriendi consiste nell’addomesticare la morte piuttosto che nel negarla. Troviamo quest’arte in molte culture, possiamo dire che è una costante dell’umanità. Lo stesso vale per l’arte religiosa in cui la rappresentazione dell’agonia ha una funzione educativa. Per citare solo alcuni esempi, possiamo ricordare le tante decapitazioni di San Giovanni Battista, le rappresentazioni di San Sebastiano trafitto dalle frecce, o di San Lorenzo sulla graticola. Senza dimenticare la pala d’altare di Issenheim a Colmar in cui la rappresentazione della morte di Cristo raggiunge le vette che conosciamo. Potremmo moltiplicare gli esempi in questo senso consistenti, nell’omeopatizzare la fine, nell’integrarla nella vita quotidiana, per evitare un uso malsano della paura che porta a una decostruzione delle menti i cui effetti continuano a manifestarsi anche a lungo termine. Le società equilibrate non negano la paura. Sanno come darle il posto che le spetta nella vita sociale, evitandone così gli effetti perversi. Le Vergini nere, le figure di Salomè con i capelli corvini e altre «Dea Fortuna», dove il nero domina sono lì a richiamare una costante umana: nigra sed pulchra, nera ma bella!

Questo è un modo per affrontare la paura, non esacerbarla. Le opere degli storici, penso in particolare a Jean Delumeau, mostrano che questa esacerbazione si ripete regolarmente. E per dirla metaforicamente, il «tempo della peste», utilizzato dalle forze al potere, è sempre un modo per regolare il comportamento della maggioranza. E così sottometterla. 

La peste

Il «tempo della peste» è quello in cui le consuete protezioni cessano il loro effetto, diventano inoperanti. Preghiere, processioni religiose, benedizioni e perfino esorcismi non possono alcunché contro la peste; allo stesso modo, durante la pandemia, abbiamo assistito alla decostruzione di un sistema sanitario che dovrebbe, se non scongiurare la morte, almeno ritardarla. I medici di base, ricorso quotidiano in caso di malattia, sono stati esclusi dalle cure, o addirittura banditi dalla loro pratica abituale a favore di emergenze ospedaliere molto rapidamente saturate. Utilizzare gli slogan attuali non potrebbe essere più paradossale: si tratterebbe di evitare la contaminazione con l’iniezione vaccinale per «proteggere l’ospedale»! Lontano dal suo ruolo di stato protettivo, il potere mette in scena la propria fragilità. Ma ciò che ci insegna anche la storia è che l’uso della paura da parte delle classi dirigenti, proprio dei periodi di decadenza, porta irrimediabilmente a forme di sedizione.

Ciò che in questo senso possiamo chiamare «eresia» è sia il segno della fine di una civiltà che l’indice di una nuova cultura in divenire. Una cultura che saprà ancora una volta integrare la paura, evitando i suoi aspetti più malvagi. La distinzione, poco utilizzata e non meno rilevante, tra cultura e civilizzazione è qui essenziale. Nel suo momento nascente, la cultura integra tutti gli elementi della vita sociale. E questo nella sua interezza. Il bene e il male entrano in costante interazione e ciascuno contribuisce al proprio livello alla complessità umana. La civilizzazione, che segue questo momento fondativo, poggia sulla separazione di questa complessità. Questo è ciò che prevaleva durante la modernità in cui il «principio di separazione» era ciò da cui si organizzavano le varie istituzioni sociali. Ed è un tale taglio che ora esacerba la paura e quindi rafforza l’isteria e le allucinazioni collettive. Ciò è frequente in tutti i periodi di decadenza.

Michel Maffesoli 

Traduzione a cura di Manuel Zanarini

Note:

1. Cf. J. Delumeau, La paura in Occidente, XIV – XVIII secolo

2. L’uso della parola Rinascimento da parte del potere in atto è simile alla Neolingua di 1984: chiamiamo Rinascimento le vecchie ricette ritrite della politica politicata!

3. Chateaubriand, Memorie d’oltretomba

4. Guy Delpierre, La paura e l’essere

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