Il 15 marzo a Roma si celebrava le Idi di marzo, un giorno di festa, ma anche di lutto. Il 15 marzo del 44 a.C., infatti, fu assassinato Giulio Cesare e con lui morì la prima chiara espressione del desiderio di unificazione europea, secondo lo stesso Plutarco. Cesare è dunque il padre putativo dell’Europa? Le basi della nostra civiltà sono certamente precedenti a Roma, ma le conquiste cui mirava Cesare avrebbero potuto fissare definitivamente il «limes», alla maniera del «sogno più lungo della storia», caro al grande storico Jacques Benoist-Méchin. Tuttavia, all’epopea dello storico Jacques Benoist-Méchin mancava l’episodio centrale: eccolo – il sogno europeo di Giulio Cesare, impedito dalla sua morte prematura – raccontato da Romain Sens, tra geo-strategia e ucronia.
Duemila sessantasette anni fa, il 15 marzo del 44 a.C., sul pavimento del Senato di Roma, il più illustre degli europei, Giulio Cesare, crollò sotto le pugnalate di una congiura di criminali.
Assassinandolo, i congiurati, senatori impauriti guidati dal figlio adottivo di Cesare, Bruto, che Nietzsche chiamò incautamente «superuomo» per questo atto, posero fine in modo prematuro e brutale alla vita di un uomo che avrebbe potuto dare all’Europa un destino ben più illustre.
Cesare sarà vendicato, i suoi assassini, odiati dal popolo di Roma, saranno tutti giustiziati da Marco Antonio e l’opera costruita da Cesare conservata, ampliata e abbellita nella Roma di marmo dall’altro figlio adottivo Augusto, che gli fu fedele. Ma quest’opera avrebbe potuto essere ben diversa, se Cesare fosse vissuto.
Cesare nel fiore degli anni
Nel 44 a.C., Cesare era salito più in alto di qualsiasi altro prima di lui. E questo dopo sei anni di guerra civile che aveva lacerato Roma. Tra due uomini, Cesare e Pompeo, ma anche tra due visioni, la dittatura a vita per Cesare, il primato del Senato della Repubblica per Pompeo, questa guerra fratricida si conclude con la vittoria assoluta di Giulio Cesare. Non aveva più avversari dichiarati nel territorio di una Roma che aveva potuto espandere come mai prima, aggiungendo alla Repubblica romana il territorio della Gallia, della Britannia meridionale e dell’Egitto.
Quando Cesare morì, all’età di 56 anni, era ancora vigile e dinamico, capace di esercitare il comando politico come di padroneggiare l’arte militare in cui eccelleva. E la sua ambizione traboccava.
Gli sono state quindi imposte due sfide. La prima, non secondaria, riguarda la Dacia (attuali Romania e Bulgaria). L’impero della Dacia di Burebista si estendeva dalla Boemia al Mar Nero e la sua espansione poteva finire per minacciare il potere di Roma. Secondo Svetonio, Cesare voleva «contenere i Daci che si erano diffusi in Tracia e nel Ponto». La vicinanza geografica di questo rivale non avrebbe reso impossibile il compito di Cesare se si fosse mosso in questa direzione. Il destino volle che, dopo la morte di Cesare, anche Burebista fosse assassinato, con il risultato che l’impero dacico in costruzione si frantumò in molteplici entità indipendenti, lasciando Roma senza una potenza costituita che la minacciasse su tutti i confini settentrionali e occidentali dell’impero.
Alla conquista dell’Est
Ma supponendo che Cesare sia riuscito a «contenere i Daci «rapidamente intorno al 44», in realtà si stava imbarcando in un progetto molto più grande. Un progetto che avrebbe potuto cambiare il destino di Roma, dell’Europa e persino del mondo.
Prima di morire, nominò i consoli per i tre anni successivi, – 43, – 42 e – 41, mentre si preparava a lasciare la capitale e a lanciare le sue forze in un progetto su larga scala e a lungo termine.
Questo progetto può essere riassunto come segue: finire in Oriente.
In effetti, la minaccia militare dell’Oriente persiano, sia esso persiano, partico o sassanide, ha sempre definito (con grande sfortuna) la geo-strategia dell’Europa antica, sia essa greca, romana o bizantina. E questo perenne confronto nelle sabbie della Mesopotamia sarà una delle cause principali della caduta di Roma.
Durante la vita di Cesare, i Parti inflissero a Roma colpi molto dolorosi. Quando Cesare combatteva in Gallia, Crasso, il console che amava tanto l’oro, si trovò circondato dalle sue legioni distrutte dai Parti a Carre. Dione Cassio riferisce che il generale Surena si versò dell’oro fuso in bocca prima di inviare la sua testa al re dei Parti Oròde II. Una minaccia militare esistenziale, un affronto da vendicare e soprattutto una sfida degna di Giulio Cesare.
Ponendo definitivamente fine alla minaccia proveniente da Oriente, Roma avrebbe potuto non solo assicurarsi definitivamente le sue province più ricche, ma soprattutto avrebbe potuto evitare di spendere tanti sforzi, manodopera, denaro e tempo in una guerra senza tregua per secoli tra Siria e Armenia. Eliminata questa minaccia, la piena potenza della sua macchina militare avrebbe potuto essere dispiegata sulle frontiere settentrionali della Britannia e della Germania, prevedendo così il completamento dell’imperium romano sul continente europeo.
La fine dei Parti
Tre fonti storiografiche sono giunte fino a noi per descrivere questa impresa, tre fonti che differiscono notevolmente sugli obiettivi della spedizione: Svetonio, Dione Cassio e Plutarco.
Sia Svetonio che Dione Cassio sono cauti nel descrivere il progetto. Si trattava solo di «sottomettere i Parti». E in particolare di far loro pagare l’affronto subito da Crasso. Quando Roma fu offesa, non dimenticò. Le pesantissime rappresaglie di Germanico tra i Cherusci, i Frisoni, i Longobardi e gli Angrivari, compiute dopo la disfatta di Varo, sono lì a testimoniarlo.
Ma vendicare l’affronto partico non fu un compito facile per Cesare. In effetti, le tattiche partiche si basavano principalmente su una cavalleria di cavalli e cammelli montati da arcieri che evitavano costantemente il contatto diretto per colpire il nemico con frecce a distanza. Allo stesso modo, in caso di contatto con la cavalleria nemica, l’esercito partico poteva contare sulla sua cavalleria pesante di lancieri corazzati, i famosi catafratti che in seguito ispirarono la cavalleria dell’Impero Romano d’Oriente.
La Germania dal suo fianco orientale
Ma secondo Plutarco, i progetti di Giulio Cesare erano di tutt’altro ordine. E avrebbero potuto portare l’Europa più in alto che mai.
La prima tappa di questa vasta spedizione militare sarebbe stata quella di ridurre a zero la minaccia partica senza cercare la conquista della Persia. Si trattava di «domare» i Persiani. Ma una volta completato questo tour de force, Cesare non sarebbe tornato pacificamente a Roma con le sue legioni per la via seguita all’andata.
Al contrario, Cesare avrebbe condotto l’esercito romano direttamente a nord attraverso l’Hyrcania, «la Terra dei Lupi», lungo il Mar Caspio e poi oltre la formidabile barriera naturale delle alte montagne del Caucaso. Una volta fatto questo, la vera impresa di conquista europea avrebbe potuto iniziare in Scizia.
Inoltre, dovevano essere conquistati diversi popoli e tribù scite così come molti cavalieri sarmati quali i Roxolani, gli Iazyges, gli Alani, i Taifali. Non sono da meno la Russia occidentale, l’Ucraina, la Bielorussia e la Polonia che le legioni avrebbero dovuto conquistare in prima istanza: «per assoggettare tutti i paesi confinanti con la Germania». Ma l’obiettivo finale sarebbe stato, dopo aver eliminato la minaccia partica e poi conquistato tutta l’Europa orientale, quello di conquistare la regione che alla fine minaccerà Roma per i prossimi cinque secoli avvenire e alla fine vincerà completamente: la Germania.
Così, mentre il figlio e successore Augusto tentò logicamente, prima di fallire tragicamente, di colonizzare la Germania da ovest del Reno, Cesare avrebbe dovuto risolvere questo problema esistenziale attaccandola da Est. Prima di tornare in Italia attraverso la Gallia romana per celebrare il più illustre trionfo che l’intera storia di Roma abbia mai conosciuto.
Irrealistico?
Cesare trascorse tutta la sua giovinezza leggendo le conquiste di Alessandro Magno. La sua ambizione era probabilmente quella di eguagliarlo o addirittura superarlo in grandezza. E la conquista dell’intera Europa continentale sarebbe stata certamente perenne, a differenza del breve impero di Alessandro, che esplose in molteplici regni dei diadochi non appena il suo fondatore morì.
D’altra parte, laddove Alessandro affrontò Dario a capo di un impero persiano, un colosso dai piedi d’argilla composto da più popoli dall’incerta coesione, facendolo vacillare irrimediabilmente in una battaglia decisiva (Gaugamela), Cesare avrebbe affrontato l’esercito partico, un nemico molto più temibile sia in termini tattici che strategici.
Una volta raggiunto questo obiettivo militare, doveva ancora… sconfiggere tutti gli altri popoli che lo fronteggiavano dal Mar Caspio al Reno. E questo, attraversando regioni tanto difficili da raggiungere (il Caucaso) quanto totalmente sconosciute alle sue truppe (la grande pianura germano-sarmatica).
Più di uno scenario
Ci sono tre ragioni principali per cui un’impresa del genere dovrebbe avere successo. Innanzitutto, la disponibilità di uomini sufficienti. Per un simile piano di conquista è altrettanto necessario avere le truppe per sconfiggere i propri avversari (e in primo luogo i Parti), quanto per occupare successivamente i territori conquistati e garantire la persistenza delle linee di comunicazione e di rifornimento e per affrontare gli avversari successivi. Sebbene all’apice della sua potenza territoriale Roma fosse perennemente debole dal punto di vista numerico (un massimo di 750.000 uomini per garantire l’integrità di tutti i confini dell’impero allargato), resta il fatto che all’epoca di Giulio Cesare gli immensi numeri necessari per un progetto di tale ambizione non erano irraggiungibili.
Nell’ultima guerra civile dopo l’assassinio di Cesare, la forza combinata delle legioni di Ottaviano e Marco Antonio ammontava a 400.000 uomini. Questi 400.000 uomini sarebbero stati ovviamente disponibili 12 anni prima per porre fine alla minaccia partica, che all’epoca era l’unico vero avversario di Roma.
Il secondo elemento a favore di questo successo viene dalla legione romana stessa. Addestrata al combattimento individuale, al corpo a corpo, alla tattica, alla logistica, a una disciplina tanto efficace quanto implacabile, la legione romana era tanto formidabile quanto invincibile nelle battaglie campali a parità di numero. In quasi tutte le battaglie che la legione romana fu in grado di combattere e vincere, era fortemente sotto organico. Se Cesare fosse stato in grado di superare il formidabile sistema di armi dei Parti, il cavallo e l’arciere, è probabile che ci sarebbero stati pochi avversari in grado di resistere a Roma. La legione era perfettamente in grado di «vivere nella terra conquistata», limitando così la necessità di rifornimenti, pur avendo dimostrato più volte la sua capacità di combattere autonomamente nel tempo in un paese ostile. Svernare nella pianura germano-sarmatica e costruire le necessarie fortificazioni in legno era tutt’altro che logisticamente impossibile per la legione romana.
Infine, l’ultimo argomento a favore di un successo geo-strategico risiede ovviamente nella persona stessa di Giulio Cesare. Maestro di guerra imbattuto, si trovò più volte in una posizione terribile (ad Alesia come ad Alessandria), e dove molti generali non avrebbero avuto la lungimiranza tattica e il carisma necessari per galvanizzare i suoi soldati, Giulio Cesare riuscì a trovarli. Per la gloria di Cesare. Per la gloria di Roma.
Un nuovo «Veni, vidi, vici»
Una volta sconfitti i Parti, avrebbe dovuto rinunciare alle chimere di Alessandro, alla conquista della loro capitale Ctesifonte, all’occupazione della Persia evitando le trappole del lontano Khorasan e i miraggi del Gange e dell’Indo. L’obiettivo era l’Europa e solo l’Europa.
Immaginando la Russia occidentale, l’Ucraina, l’Europa centrale e la Germania integrate nel territorio romano, fu senza dubbio la Scandinavia, e tutte le isole della Britannia che si sarebbero dovute romanizzare subito dopo. L’ideale romano basato su un «Mare Nostrum» sarebbe quindi diventato un ideale europeo continentale. Significava che quello che sarebbe diventato l’Impero Romano sarebbe durato per i secoli a venire. Significava l’eliminazione di ogni minaccia di invasioni barbariche europee, perché non sarebbero più stati barbari. Significava la possibilità di dover resistere a tutte le future invasioni dall’Oriente, siano esse unne, sassanidi, turche, arabe o mongole. Era semplicemente la possibilità di unire irrevocabilmente tutti i popoli della stessa civiltà europea sotto un vessillo romano, sotto un ideale comune.
Se Cesare fosse vissuto, se Cesare avesse vinto, forse oggi Roma sarebbe sopravvissuta.
Romain Sens
Illustrazione: dipinto ottocentesco di Pelagio Palagi, Giulio Cesare appare in mezzo ai suoi attenti e premurosi segretari, mentre detta i suoi «Commentari della guerra gallica», una raccolta delle sue gloriose imprese d’armi.
(Romain Sens, Si César avait vécu, la face de l’Europe aurait change, Revue Éléments, https://www.revue-elements.com/, 15 marzo 2023)