Le avevano date per morte, o perlomeno tramontate. Incapaci di esercitare sulle menti umane la presa di un tempo, di mobilitare entusiasmi ed energie, di spingere al sacrificio o all’abiezione – come era accaduto nell’arco di più di due secoli, perlomeno dalla nascita dell’Illuminismo in poi.
Le avevano date per morte, o perlomeno tramontate. Incapaci di esercitare sulle menti umane la presa di un tempo, di mobilitare entusiasmi ed energie, di spingere al sacrificio o all’abiezione – come era accaduto nell’arco di più di due secoli, perlomeno dalla nascita dell’Illuminismo in poi. Si pensava che sopravvivessero soltanto in microscopiche nicchie destinate a una lenta progressiva estinzione, dove conventicole di fanatici si intestardivano a celebrare i loro riti fuori dal tempo, a farsi coraggio a vicenda per superare il crescente isolamento, a coltivare rabbiosi e utopici sogni di rivalsa. Insomma, per le ideologie si era intonato il de profundis, in un primo momento in modo ancora circospetto, quasi sottovoce, poi con toni sempre più alti, fino a giungere – dopo la svolta avviata dal memorabile autunno 1989 – ad un coro possente alimentato dai proclami paralleli di politici ed intellettuali (specialmente da quelli che, nell’uno e nell’altro campo, più avevano creduto e fatto credere nella loro benefica insostituibilità e che adesso, con atti di pubblica contrizione più o meno sincera ed esibita, si dichiaravano pentiti e convertiti).
Nata, come tutte le mode culturali del secondo dopoguerra, negli Stati Uniti d’America con il libro del 1960 The End of Ideology, una raccolta di scritti di Daniel Bell, un sociologo che, per dare ulteriore credibilità a quanto sosteneva non esitava a definirsi «socialista in economia, liberale in politica e conservatore nella cultura», la tesi della scomparsa dei sistemi di credenze politico-sociali dall’orizzonte della contemporaneità – che lo stesso Bell avrebbe definito una dozzina di anni dopo, con innegabile acume, «postindustriale», è stata ovviamente a lungo contrastata, spesso con una malcelata irritazione, dai teorici del marxismo e delle sue varie derivazioni. Quando queste ultime hanno subìto la dura replica della storia, ha dilagato senza trovare ostacoli, banalizzandosi fino a diventare un luogo comune spacciato senza ritegno nei salotti televisivi come nelle aule o nei convegni universitari.
In questo percorso, della tesi sono andati smarriti, o sono rimasti sottotraccia, alcuni dei connotati originari fondamentali. Bell infatti aveva sostenuto che ad essere in via di esaurimento erano le vecchie “ideologie umanistiche” sviluppatesi nel corso del diciannovesimo e della prima metà del ventesimo secolo, ma che altre credenze, di raggio più limitato (parochial), ne avrebbero preso il posto. E quella sua intuizione trovava a suo avviso conferma, come sostenne nell’introduzione alla nuova edizione del 2000 della sua più nota opera, nel fiorire di conflitti ispirati a rivendicazioni di carattere etnico e/o religioso che allora si manifestavano soprattutto all’interno degli Stati dell’ex-blocco sovietico (e che, da allora in poi, si sono estesi a molte altre aree del pianeta). Una visione che aveva non poche somiglianze, se non coincidenze, con quella espressa nel troppo spesso mal (o non) letto e frainteso lavoro di Samuel Huntington su Lo scontro delle civiltà.
Se dunque non si può far carico a Bell della distorsione del suo punto di vista, o dell’attribuzione di intenzioni che il suo studio non aveva, questa colpa va attribuita a molti di coloro che sul tema da lui sollevato hanno ricamato, in buona o in mala fede, per diffondere la convinzione che ai nostri giorni i conflitti politici, sociali e culturali che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi abbiano a che fare non più con opposte visioni del mondo ma, più prosaicamente, con divergenze sul modo di risolvere razionalmente problemi di interesse pubblico o con semplici appetiti di potere di individui e/o gruppi mossi da ambizione, avidità o – perché no? – follia o altre patologie psicologiche.
Cavalcando questa lettura, gli scopi che si vogliono raggiungere sono di una duplice natura. Da un lato, si vuol far credere che, una volta lacerato il velo accecante dei “pregiudizi” ideologici, tutte le questioni rilevanti che attraversano le società odierne possano e debbano essere risolte ricorrendo ad argomenti e soluzioni “razionali”, a partire dal paradigma utilitaristico che lega la bontà di ogni azione al rapporto costi/benefici (individuali o collettivi) che la ispira. Dall’altro, si punta a fare dell’”Occidente liberale” il luogo esclusivo di elezione e applicazione di questa razionalità, e quindi a fare dei criteri di ragionamento e di comportamento a questa ispirati il modello unico ideale a cui ogni governo, ogni uomo politico, ogni intellettuale – ma, in fondo, ogni individuo – dovrebbe in qualunque frangente ispirarsi e piegarsi. Detta più sinteticamente e in altri termini, dietro questa apparente negazione del ruolo svolto dalle ideologie nella nostra epoca c’è la precisa volontà di far crescere ulteriormente giorno dopo giorno, con tutti gli strumenti del soft power, l’unica ideologia che la ruling class considera proficua ed ammissibile: l’occidentalismo.
Va detto, ad evitare fraintendimenti, che – pur poggiando su alcuni pilastri indiscutibili, che nella loro essenza derivano dalla “rivoluzione moderna” attivata dalla predicazione illuministica – questa ideologia non presenta la stessa monoliticità e fissità delle ideologie del passato recente, provviste di padri fondatori e “testi sacri”. Nelle espressioni concrete dimostra una capacità di adattamento ed evoluzione notevole, che le permette di declinarsi in forme distinte e persino in taluni casi in apparenza contrastanti, allargando la platea potenziale dei suoi destinatari. Se l’individualismo, l’universalismo, il materialismo e il cosmopolitismo sono i suoi caratteri di fondo irrinunciabili, il repertorio delle sue incarnazioni può variare lungo l’intera vasta gamma di opzioni offerta dalle varianti del liberalismo, dalle versioni più conservatrici alle più progressiste, passando per gli ibridi socialdemocratici. E soprattutto può assumere il travestimento più efficace, presentandosi come un sinonimo di democrazia e innalzando il vessillo delle libertà (formali e individuali) come paravento, pur liquidando contemporaneamente il popolo – quel demos cui la parola attribuisce il kratos – come un mito, un’entità introvabile, una mera finzione, o, peggio, un veicolo di demagogia dietro cui spunta l’ombra dell’autoritarismo. Perché non al popolo, ma all’individuo – che è l’unica entità reale riconosciuta in quest’ottica – questa ideologia attribuisce il primato.
Se si è capaci di identificarla, o meglio di smascherarla, oltrepassando la cortina fumogena delle manipolazioni dei suoi divulgatori, questa ideologia occidentalista – spesso definita, con minore precisione, pensiero unico, pensiero dominante, politicamente corretto – si mostra oggi in tutta la sua aggressività in tutti i campi della vita collettiva. Nelle versioni progressiste è alla base del forte slittamento della “sinistra” dalla difesa dei diritti sociali all’affermazione dei diritti individuali – laddove i primi erano e sono definiti da oggettive condizioni economiche condivise da cospicue frazioni della popolazione, le (un tempo) cosiddette classi subalterne, mentre i secondi si basano sulla pretesa di riconoscimento giuridico di desideri soggettivamente coltivati da minoranze (come nella maggioranza delle rivendicazioni Lgbtq+, dai matrimoni e dalle adozioni omosessuali alla possibilità arbitraria di “cambiare genere” a prescindere dalla propria configurazione cromosomica e, più in generale, biologica). Nelle versioni conservatrici determina sia la progressiva rimozione dei limiti all’espansione planetaria delle grandi concentrazioni economico-finanziarie, con tutte le connesse conseguenze sulle delocalizzazioni industriali, le strategie di dumping, la sostituzione del lavoro umano con l’impiego di macchine guidate dall’”intelligenza artificiale”, e in definitiva il trionfo della logica capitalistica e consumistica più brutale, sia l’adesione incondizionata, a volte supina ma non di rado entusiasta, al progetto di ulteriore rafforzamento dell’egemonia planetaria degli Stati Uniti d’America, che dell’ideologia occidentalista sono la culla, il fulcro e la garanzia.
È in obbedienza agli imperativi di questa ideologia che oggi assistiamo a campagne di propaganda senza precedenti – in apparenza distinte e persino remote, ma di fatto convergenti – volte a vincere ogni residua resistenza al dilagare della way of life occidentalista. Non c’è alcun bisogno di credere, come è tipico di taluni ambienti marginali ed infantilmente estremisti, ad un complotto ordito in segrete stanze per fa trionfare il Nuovo Credo dell’era globalizzata. Come in tutti i casi in cui si è assistito al dilagare di febbri ed infezioni ideologiche, è la saldatura fra presupposti empirici e suggestioni teoriche a fare da veicolo delle convinzioni indotte che via via si impongono. Quando i mezzi d’informazioni impiegano l’arma psicologica del ricatto fondato sulla commozione e sulla compassione per giustificare l’accesso indiscriminato delle masse migratorie in Europa o per fare del conflitto russo-ucraino l’emblema della lotta finale tra il Male e il Bene, oppure si sforzano di giustificare gli atti di vandalismo degli “ecologisti radicali” o degli iconoclasti attivisti della cancel culture, o le pretese di chi, in nome dell’antirazzismo o della “letta contro le discriminazioni”, mira a promuovere un razzismo di segno inverso e ad imporre un senso di colpa generalizzato a tutti coloro che hanno il “difetto” di essere nati con la pelle bianca e di sesso maschile, non ci si può stupire se i loro messaggi trovano ascolto in considerevoli settori della popolazione, specialmente fra i più giovani, che hanno ormai da tempo abbandonato la lettura e la riflessione per concedere a tv e “social” la possibilità di plasmare e deformare le loro menti.
Se questa è la situazione che ci troviamo dinanzi, è bene che quanti non intendono restare inerti a contemplarla e desiderano, invece, combatterla si rendano conto che alle suggestioni dell’ideologia non si può far fronte che con la forza di credenze alternative in grado di reggere il confronto. E che un primo passo indispensabile per ostacolare seriamente la penetrazione sempre più invadente dei dogmi occidentalisti è l’elaborazione di una visione coerente e sistematica che abbia alla sua base i principi simmetrici a quelli proclamati dagli avversari: comunitarismo e visione olistica della società, radicamento nelle identità plurali delle culture che regalano al mondo la ricchezza della sua diversità, richiamo alle tradizioni popolari, riscoperta del Sacro, giustizia sociale, accettazione dell’esistenza di un ordine naturale.
È questa la strada che abbiamo intrapreso quasi mezzo secolo fa e che abbiamo costantemente percorso malgrado gli ostacoli, le incomprensioni, i boicottaggi, le irrisioni e le diffamazioni a cui abbiamo dovuto far fronte. È il motivo per cui, fin dall’inizio, abbiamo valorizzato il contributo di riflessione che ci veniva da chi, come noi, perseguiva gli stessi obiettivi in altri paesi – Alain de Benoist in primo luogo –, senza complessi di inferiorità e senza nascondere, quando ci sembrava necessario, qualche divergenza, ma sforzandoci di promuovere un proficuo interscambio di idee. Ed è anche la ragione che ci ha portato, e ci porta, non solo a rifiutare gli inutili e controproducenti richiami a modelli del passato inadatti al confronto con la nostra epoca, ma anche i compromessi opportunistici con il pensiero dominante. Abbiamo scelto la via metapolitica, e abbandonato quella politica, perché la sapevamo più efficace e libera dalle tentazioni dell’abiura. E, ancora una volta, facciamo appello a coloro a cui giunge la nostra voce perché vogliano condividere questa nostra scelta in vista degli obiettivi comuni, scartando scorciatoie, nostalgie, ipocrisie. Solo così si potrà lanciare una sfida efficace alla sola egemonia ideologica oggi esistente, quella dell’occidentalismo liberale.
Marco Tarchi
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