Nel fine settimana tra il 9 e l’11 Giugno scorso, a Bologna, si è tenuto l’annuale evento «Repubblica delle Idee» de La Repubblica. Tra i tanti dibattiti, merita di essere menzionato l’incontro/intervista con Massimo Cacciari, dal titolo «Oltre il lavoro», in quanto trattasi di una riflessione sul mondo del lavoro alla luce delle nuove scoperte tecnologiche e in particolare dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale.
Stimolato dal giornalista con cui ha dialogato, il filosofo veneziano ha sviluppato il suo ragionamento molto articolato ricordando l’importanza del dettato dell’Articolo 1 della Costituzione che afferma, al Comma 1, che «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Secondo Cacciari, però, la questione così posta è monca; infatti, i costituenti non hanno definito cosa debba intendersi per il «lavoro» che dovrebbe rappresentare il fondamento della nostra Repubblica. Basta un’analisi comparata del significato letterale della parola lavoro in una serie piuttosto vasta di lingue, per capire come in sé tale parola non abbia un significato positivo, in quanto esprime sempre qualcosa che rappresenta una fatica per l’uomo. D’altronde, lo stesso termine latino «labor», da cui deriva appunto «lavoro», significa letteralmente «fatica, lavoro». Allora, diventa fondamentale ripensare tale questione partendo proprio da cosa intendiamo per lavoro. La soluzione proposta da Cacciari è quella di interpretarlo come una libera attività che produca effetti coerenti con le intenzioni dell’individuo, i suoi desideri, i suoi bisogni: un’esplicitazione pratica (derivante dalla praxis del Discorso sul metodo di Cartesio) delle cause che seguono una mia legge e che mi consenta di ottenere la libertà. In sostanza, il lavoro dovrebbe essere quella serie di attività che permettano all’uomo di divenire una causa sui, libero dalla «schiavitù del lavoro» che non lo aggrada, che diventa sforzo, e che lo rende un «occupato». Un occupato poi da chi o da che cosa, non si sa. Il dovere costituzionale dei vari Governi italiani dovrebbe essere quello di rimuovere gli ostacoli che impediscono tale realizzazione dell’uomo. Sempre secondo Cacciari, oggi esistono le condizioni scientifiche, ovviamente se ce ne fosse la volontà, per permettere questa liberazione dal «lavoro» come è stato inteso finora.
Secondo il filosofo, la specie umana non riconosce sostanzialità nelle cose in sé, ma queste esistono solo se pensate, dominate, trasformate dall’uomo. In questo senso, il «linguaggio» è il primo lavoro dell’uomo, in quanto attribuire un «nome» a una cosa rappresenta il primo passo dell’uomo per averla a disposizione, quindi dominarla. Partendo da questa caratteristica fondamentale della specie umana, i grandi filosofi e scienziati del 1500-1600, Leibniz in primis, hanno elaborato l’inizio del grande sviluppo scientifico che, intrecciandosi con l’economia – tale intreccio tra scienza ed economia rappresenta la causa del grande benessere dell’Occidente di questi ultimi 500 anni – ha oggi portato per la prima volta nella storia l’umanità ad avere la possibilità di concentrarsi sulle attività che gli individui vogliono, non più costretti a svolgere le mansioni manuali, faticose e pericolose alle quali il «labor» li ha costretti finora. Passo ultimo e decisivo di questo percorso «liberatorio», è rappresentato dall’intelligenza artificiale, che non va vista come minaccia, ma, anzi, come la più grande occasione di libertà per l’umanità. Chiaramente, affinché tale sviluppo scientifico porti alla liberazione dell’umanità esiste una condizione basilare: l’enorme ricchezza generata dall’intelligenza artificiale deve essere ridistribuita a tutti e non lasciata in mano ai pochi. In un’economia globale e altamente correlata come quella di oggi, tutti sono coinvolti nella produzione di ricchezza, quindi l’intelligenza artificiale viene vista come la via per liberare l’umanità dal «labor» e non come strumento che crei élites miliardarie da una parte e «neo-plebi» miseri dall’altra – contrapposizione che supera la «lotta di classe» che in qualche modo creava «società», creava «politica».
Cacciari indica come perfette stupidaggini le preoccupazioni riguardanti la minaccia che l’intelligenza artificiale possa danneggiare l’umanità fino a distruggerla. Ci si può immaginare una lotta tra macchine e uomini per le risorse come l’elettricità, ma ciò non è altro che stupida fantascienza. Questo perché? Perché l’uomo non è affatto interessato a ricreare un «uomo artificiale» che oltre all’intelligenza – in linea teorica nulla vieterebbe all’uomo di ricreare il cervello umano – abbia anche una spiritualità, che sia «indipendente» dall’uomo, che provi come quest’ultimo angoscia perché sa già di dover morire. Quello a cui l’uomo è interessato è la creazione dello «schiavo perfetto», una «macchina laborans», che lo distolga dall’obbligo del lavoro concepito come faticoso, come detto all’inizio, risolvendo anche alla radice la tragedia delle morti sul lavoro, figlia appunto della logica con cui si è concepito l’uomo che inevitabilmente schiavo, alla stregua di un macchinario, è esposto al «rischio calcolato» della distruzione o danneggiamento di qualche unità che verrà sostituita da un’altra perfettamente in grado di sostituirla, tanto che nessuna di esse svolge una mansione che ne riveli ogni particolarità e la capacità specifica di mutamento dell’uomo. Ciò che emerge invece, cosa nemmeno menzionata da Cacciari, è lo strapotere della Tecnica che svincolatasi dall’uomo ha ridotto quest’ultima a mero «macchinismo» procedurale.
Sempre secondo il filosofo veneziano, la grande svolta della Sinistra è quella in grado di arginare l’«ondata di Destra» che parte dal duo Thatcher-Reagan che ha visto la controparte cedere sistematicamente e progressivamente al capitalismo neoliberista e neocon su tutti gli aspetti. La politica deve fissare un obiettivo a lunga scadenza – appunto quello della libertà dell’umanità dal «labor» grazie all’intelligenza artificiale – e tracciare la via verso di esso, per quanto lunga sia, e abbandonare l’idea di «leggi casuals» che, nel tentativo vano di risolvere problemi di corto respiro non stanno risolvendo alcuno dei problemi odierni: povertà, precarietà, mancanza di prospettiva per le giovani generazioni, morti sul lavoro, disastro ambientale, ecc.
Tale intervento di Massimo Cacciari, coincide quasi con un documentario uscito in questi giorni nelle sale italiane, After Work, all’interno del quale Noam Chomsy riprende, seppure molto brevemente, le tesi di Cacciari, e nel quale viene proposto, come panacea della «disoccupazione di massa globale» inevitabilmente causata dall’intelligenza artificiale, un «reddito minimo universale» da elargire (senza peraltro indicare chi, o che istituzione, dovrebbe stanziarlo e secondo quali criteri) a chi non abbia un lavoro. È doveroso ricordare che la tesi espressa nella pellicola è paradossalmente sostenuta da Eleon Musk… Alla fine del documentario, viene mostrato come di fronte alla possibilità di essere pagati senza lavorare, la gente non saprebbe come impiegare il tempo e dare un senso alla propria vita. Incredibile ma vero, la colpa di questa situazione viene data a una appena abbozzata «etica del lavoro», mentre il termine «capitalismo» non viene utilizzato nemmeno una volta in oltre un’ora e mezzo di proiezione!
Indubbiamente il ragionamento di Cacciari è molto articolato e tocca uno degli aspetti già centrali nel dibattito sul mondo del lavoro e che sarà «IL» tema principale in un prossimo futuro: come adattare la realtà lavorativa alle nuove innovazioni tecnologiche? Già da qualche anno, da quando si è iniziato a parlare di «Industria 4.0», il tema del cambiamento del mondo del lavoro è diventato centrale sotto molteplici aspetti e soprattutto per quello che riguarda l’Italia e gli Stati ad alto tasso manifatturiero in generale. L’ultima rivoluzione tecnologica, più i suoi continui aggiornamenti, buon ultimo quello legato all’intelligenza artificiale, stanno mettendo una pietra tombale sul modo di produzione in vigore quasi dall’Ottocento. Avere una massa di lavoratori poco formati e specializzati, non è più compatibile con le necessità di conoscenze tecnologiche e informatiche. Inoltre, l’imporsi dell’intelligenza artificiale inevitabilmente porterà alla perdita di miliardi di posti di lavoro in tutto il mondo, in quanto, come storicamente dimostrato, l’ utilizzo di macchinari sempre più performanti richiede costantemente un minore impiego di persone fisiche. È chiaro che in un Paese come il nostro, con una forza lavoro anziana e poco formata, il rischio di un aumento della perdita di posti di lavoro sia assolutamente grave. Detto ciò, però, il ragionamento di Cacciari presenta alcune lacune filosofiche e pratiche piuttosto evidenti.
Intanto, l’affermazione secondo la quale la specie umana abbia come caratteristica intrinseca quella di voler dominare le «cose», è molto discutibile. Per millenni non è stato così ed esistono tuttora culture (ad esempio quella dei cosiddetti Indiani d’America) e religioni (Buddhismo e Induismo) per cui tale affermazione è assolutamente contestabile. La spiegazione di tale differenza la fornisce brillantemente Martin Heidegger, il quale la fa risalire alla figura di Platone che col suo «mondo delle idee» pone fine alla civiltà tradizionale greca e apre la via alla «metafisica occidentale», svincolando l’uomo dalla Natura, intesa come physis, e quindi dall’Essere per farlo vagare tra gli Enti.1 Questa distinzione, che appare solo da un certo punto della storia del pensiero umano, e quindi non intrinseca alla specie umana, tra Uomo e Natura dà vita a questa «volontà prometeica» dell’umanità di voler possedere e mettere a suo servizio le cose, le quali al contrario fino a Platone appunto venivano viste come dotate di essenzialità propria, in quanto manifestazione (sarebbe meglio dire assenza che svela) dell’Essere.
Questo sviluppo della metafisica occidentale, la corsa allo sviluppo tecnologico finalizzato al dominio sulle cose, è la vera causa dei disastri che lo stesso Cacciari denuncia. Non si tratta di una sorta di volontà per nulla chiara di dominio intrinseca alla natura umana, che è cosa diversa dalla «tecnica d’organizzazione» (Henri Lepage) che ha soppiantato in toto le scelte e l’utilizzo dell’uomo sulla Tecnica. Va da sé che è impossibile trovare la soluzione del problema all’interno delle cause che lo hanno generato se non si abbandona la hybris, la dismisura come l’ideologia manicomiale dedita all’illimitatezza, se non si disconosce la pratica e la mentalità dominanti che sono alla base dello sviluppo scientista lì dove si autoalimenta, nessuna soluzione ai problemi potrà essere trovata. Per dirla con Thomas Samuel Kuhn nel suo La struttura delle rivoluzioni scientifiche, è necessario un cambio di paradigma. Due devono essere i cardini di ogni attività umana che possano rappresentare un freno proprio a questo sviluppo scientista illimitato: limite (peras) e misura (metron). E tali limiti/misure, idee chiavi dei popoli e delle strutture tradizionali, sono ben rappresentati proprio dai limiti entro i quali l’uomo europeo deve vivere.
Va aggiunto che questa posizione fideistica di Cacciari rispetto alla scienza è piuttosto debole e ingenua. Sempre Heidegger aveva già evidenziato come la tecnica, di per sé, non è un insieme di macchine a disposizione dell’uomo, al fine di soddisfarne i bisogni.2 Al contrario, la tecnica, in quanto punto finale dello sviluppo della metafisica occidentale, dispone dell’uomo, come materiale di consumo, per soddisfare i propri bisogni. Nel suo progetto di «entificazione» della realtà, l’uomo non agisce più secondo uno scopo suo, ma diventa solo un ingranaggio di un sistema delle Reti che ha come suo fine la sua stessa «efficienza».3 Dai telefoni cellulari ai social media, dalla devastazione della natura e degli habitat alle varie tecniche sempre più mercificate che vanno dalla procreazione assistita, all’eutanasia, all’aborto o al trapianto d’organi (non siamo totalmente a sfavore di certe pratiche ma lo siamo alla loro mercificazione), gli esempi che dimostrano come non sia affatto l’uomo a governare la tecnica, ma che di essa ne è diventato dipendente sono innumerevoli. Se poi questo viene inserito in un sistema capitalista, che potrebbe essere esso stesso lo stadio ultimo della metafisica occidentale, per sua natura incline allo sfruttamento illimitato delle risorse, uomini in primis, illudersi che sia possibile per quest’ultimo «sfruttare» l’intelligenza artificiale per il bene universale, ammesso che tale espressione possa avere un senso, è pura utopia.
In definitiva, è certo che sia necessario pensare una concezione del lavoro che tenga conto delle recenti innovazioni tecnologiche, intelligenza artificiale compresa, anche perché non è possibile ignorarle. Ma pensare che sia sufficiente una soluzione «a valle», una banale ridistribuzione della ricchezza, a liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro è quanto meno ingenuo. La questione è di tutta evidenza molto complicata e non si presta certo a soluzioni spiegabili in un breve intervento e in modo così semplicistico. La hybris scientifica-tecnologica-commerciale deve essere sostituita dal «katà métron», il «secondo misura» già ben noto ai greci, che ponga dei limiti ben precisi a questa deriva che sta portando l’uomo in fondo al baratro.
Non è tanto la liberazione dal «labor» imposto attraverso un «miracolo» tecnico scientifico la via, ma una concezione diversa, che innanzitutto contempli la fine del capitalismo in quanto tale – vera causa della devastazione della natura e dell’essenza stessa dell’uomo – , ponendo al centro il rapporto simbiotico tra natura e uomo il quale, certamente, deve essere libero di soddisfare i propri bisogni ma all’interno della natura stessa, concepita come luogo della manifestazione dell’essere, che ne rappresenti il limite. Se una riforma del concetto di lavoro è necessaria, essa deve riguardare l’idea che esso, insieme al denaro e ai consumi, non possano diventare il perno su cui ruota la vita dell’uomo. Bisogna «decolonizzare» l’immaginario collettivo, facendo sì che l’uomo non viva per le «cose», gli «enti», per dirla con Heidegger, ma che impieghi il suo tempo per raggiungere l’«Essere». In questo malinteso sta lo spaesamento dei protagonisti di After Work: non va ridotto, o eliminato, il tempo impegnato nel «labor» per dedicarsi a vuoti passatempi; il tempo «liberato» dovrebbe essere dedicato a migliorarsi e per riconnetterci all’«Essere» attraverso delle attività che vanno aldilà della «mercificazione» e quindi del capitalismo. In ciò va trovata la soluzione ai problemi dell’uomo moderno, compresi quelli che riguardano il mondo del lavoro, non inseguendo soluzioni miracolose dettate dalla tecnica.
Note:
1.Per approfondire la tematica: Galimberti Umberto, Heidegger e il nuovo inizio: Il pensiero al tramonto dell’Occidente, Feltrinelli.
2.Ibidem.
3.Per approfondire la tematica: Volpi Franco, Guida a Heidegger, Editori Laterza.