Di seguito trovate il testo dell’intervista che ho rilasciato a Luigi Tedeschi della testata Italicum.
La scomparsa dell’identità. Come orientarsi in un mondo senza valori, Giubilei e Regnani 2023, intervista a cura di Luigi Tedeschi (Italicum).
Luigi Tedeschi: La crisi dello Stato nazionale ha due cause: una esterna dovuta all’avvento della globalizzazione, che ha destrutturato la sovranità nazionale ed una interna, generata dalla decomposizione degli Stati derivante dalle aspirazioni secessionistiche regionali. L’identità degli Stati è fondata su di una omogeneità etnico – culturale artificiale. Il nazionalismo sopprime le identità comunitarie regionali e legittima il proprio dominio mediante astrazioni ideologiche universaliste. Il riconoscimento delle identità comunitarie non è invece concepibile solo nel contesto di un impero, inteso come pluriverso etnico – culturale inclusivo delle differenze? La crisi del primato americano non deriva dall’incapacità degli USA, a divenire un impero, a causa del proprio unilateralismo ideologico imposto come dominio globale ed universale?
Alain de Benoist: La crisi dello Stato-Nazione, o più generalmente dello Stato moderno, non trova spiegazione soltanto nella globalizzazione e nella riproposizione di istanze di carattere secessionista. Queste sono conseguenze piuttosto che cause. La causa principale, a mio parere, è l’affermazione, quasi su scala planetaria, di una ideologia dominante basata in particolare sulla congiunzione dell’ideologia del progresso e dell’ideologia dei diritti dell’uomo. Questa ideologia dominante, erede dell’Illuminismo e che, come ci ha insegnato Marx, è anche l’ideologia della classe dominante, ha trasformato l’intero ambito politico, ha abbattuto le frontiere, giustificato le “guerre umanitarie” e dato una dimensione universalista ai vecchi problemi nazionali. Con la “governance”, l’amministrazione delle cose ha sostituito il governo degli uomini. L’espertocrazia, la convinzione che i problemi politici siano in ultima analisi solo problemi tecnici per i quali esiste una sola possibile soluzione razionale, ha alimentato la sensazione che la decisione strettamente politica non abbia più alcun ruolo da svolgere perché “non esiste alternativa” (Margaret Thatcher).Il risultato è che la “secessione” da Lei menzionata riguardo alle entità regionali è diventata la regola in seno a tutte le classi lavoratrici e medie in via di declassamento (è la nuova secessio plebis). La classe dirigente si è separata dal popolo e il divario ha continuato ad approfondirsi. L’adesione dei partiti di sinistra alla società di mercato ha peggiorato ulteriormente le cose. La sinistra ha tradito l’ispirazione del socialismo originario, che era di difendere la causa dei lavoratori. Lo Stato stesso ha cessato di essere produttore di socialità. Questa è la causa profonda del declino dei vecchi partiti cosiddetti “di governo” e dell’ascesa di movimenti più atipici che siamo abituati a qualificare generalmente come “populisti”, mentre una parte significativa di cittadini, avendo perso ogni speranza di essere ascoltata, preferisce tenersi definitivamente lontano dal gioco politico.
Fondamentalmente lei ha assolutamente ragione. Le identità comunitarie hanno maggiore difficoltà a sopravvivere in uno Stato-nazione spesso segnato dalla tradizione giacobina, che tende a eliminare i corpi intermedi e a svuotare le culture regionali delle loro specificità. Lo Stato moderno aspira a produrre una società moderna in cui l’individuo si trovi solo di fronte alla struttura statale, il che implica la scomparsa di fatto delle forme di vita comunitaria e il costante indebolimento dei legami sociali. Non è lo stesso nella tradizione imperiale (oggi forse dovremmo dire “federale”), la cui caratteristica principale è quella di essere sostenuta da un’idea spirituale e dal ricorso sistematico al principio di sussidiarietà – o principio di competenza sufficiente – consistente nel fare in modo che i problemi siano affrontati e risolti al livello più basso possibile. In un tale modello, la sovranità è necessariamente distribuita a diversi livelli invece di essere concepita come “indivisibile”, come in Althusius (in contrapposizione a Jean Bodin). Il vecchio problema di conciliare l’unità e la molteplicità trova così, naturalmente, la sua soluzione. Le identità sono plurali e soprattutto sono riconosciute per quello che sono. La grande questione del riconoscimento, sulla quale Hegel fu uno dei primi a mettere l’accento, è oggi una questione importante, considerando che è il rifiuto di riconoscere la pluralità delle forme di socialità che a sua volta provoca la loro affermazione in forme talvolta estreme o convulse.
Luigi Tedeschi: Un mondo globalizzato presuppone l’annullamento delle differenze. Ma l’avvento della globalizzazione ha generato per reazione la rivendicazione delle identità comunitarie. L’affermazione delle appartenenze non ha origine quindi come contrapposizione al rifiuto del loro riconoscimento? Le identità non nascono dal conflitto mediante il quale popoli, classi sociali, culture e religioni pervengono al loro riconoscimento? Le identità non si affermano mediante un processo dialettico – conflittuale in cui una entità comunitaria riesce a rimuovere le cause della sua negazione ed ottiene il suo riconoscimento?
Alain de Benoist: Ho appena accennato a questa dialettica, che è perfettamente normale, anche se spesso porta, inevitabilmente, a un’estremizzazione o radicalizzazione dei rapporti sociali. La causa principale del rifiuto di riconoscere le differenze, siano esse etno-culturali, religiose, comunitarie, sessuali e di altro tipo, è quella che ho chiamato l’ideologia del Medesimo. La sua caratteristica distintiva è che intende l’uguaglianza come sinonimo di identità, il che è un errore completo. I suoi sostenitori, ad esempio, sostengono che uomini e donne saranno “uguali” solo quando si sarà fatto sparire tutto ciò che può distinguerli. Da qui le illusioni della teoria del genere, che si sforza di “decostruire” le differenze sessuali riducendole a “costruzioni sociali” che gli individui sarebbero in grado di scegliere a loro piacimento, come se queste differenze, prima di poter essere costruite socialmente, non fossero radicate come un dato biologico e fisiologico. Ciò porta all’apologia del “neutro” e, insieme, a quella di ogni forma di mescolanza, ibridazione, fenomeni “trans”, ecc. Non si deve nemmeno dimenticare che, nel processo di sradicamento delle differenze, anche il capitalismo liberale gioca un ruolo essenziale. Il capitalismo, che non è solo un sistema economico ma anche un sistema antropologico e un modo di percepire il mondo, si basa sul principio di illimitatezza. La sua unica parola d’ordine è “sempre di più” (più mercato, più scambi, più profitti, più denaro trasformato in capitale, ecc.); l’eccesso (hybris) appartiene alla sua natura. Nella sua ambizione di espandersi su scala planetaria e di far predominare ovunque i valori di mercato, il capitalismo considera come ostacoli da eliminare tutto ciò che può frenare la corsa in avanti della produzione, della crescita e della sovraccumulazione di capitale .Nella sua ambizione di espandersi su scala planetaria e di far predominare ovunque i valori di mercato, il capitalismo considera gli ostacoli all’eliminazione di tutto ciò che può ostacolare la corsa in avanti della produzione, della crescita e della sovraccumulazione di capitale. Questi ostacoli sono innanzitutto i confini geografici, ma anche le “frontiere” o i limiti rappresentati da specifici modi di socialità e valori condivisi propri di un popolo, identità nazionali e regionali, abitudini culturali o regole morali che il gioco del capitale non riesce a fagocitare. Pertanto essi devono essere eliminati.
Luigi Tedeschi: La post modernità è l’era della precarietà, della flessibilità, della società liquida. Se l’uomo è dunque materia prima manipolabile, la sua identità non è plasmabile in base alle funzioni socio – economiche che esso assume nella società? Inoltre, poiché la cultura dell’immagine si sovrappone alla realtà e la percezione prevale sulla realtà oggettiva, nel mondo della virtualità digitale, l’individuo non può assumere infinite identità artificiali? Nella post modernità l’individualismo liberale non è giunto al suo definitivo compimento, in questa dimensione di nichilismo esistenziale che si configura come una fuga dalla realtà, in cui l’uomo crea e distrugge virtualmente se stesso in quanto privo di qualsiasi identità?
Alain de Benoist: In questa prospettiva, quella della confusione tra uguaglianza e identità, gli individui, supposti fondamentalmente ˝gli stessi˝, diventano intercambiabili, il che spiega l’avvento della società liquida, la moltiplicazione dei flussi migratori, la disconnessione sociale, la natura effimera e flessibile degli impegni e, infine, la miseria sociale, emotiva e morale. La fuga dalla realtà, il “rifiuto di vedere ciò che vediamo”, come diceva Charles Péguy, affonda le sue radici in un duplice fenomeno: da un lato, assistiamo a un’inflazione senza precedenti, fondata sulla moltiplicazione dei diritti soggettivi che lo Stato dovrebbe garantire, di quella che Heidegger chiamava la metafisica della soggettività. Il soggettivo diventa l’equivalente della verità. Se sono un uomo, ma mi considero una donna, allora tutti devono considerarmi tale e le autorità pubbliche devono “oggettivare” la mia affermazione riconoscendo una “realtà” che viene direttamente dalla mia mente. La convinzione che sia possibile costruire se stessi senza prendere in considerazione qualcosa che già c’è, qualcosa che si trova a monte degli individui, equivale allora a una ridefinizione della realtà. Il reale non è più solo soppiantato dal virtuale (nel senso di Jean Baudrillard), ma è ridotto alla percezione puramente soggettiva che ne ho. Il vero diventa “un momento del falso” (Guy Debord). È la porta aperta a tutte le delusioni che vediamo emergere quasi ovunque oggi. Le identità reali non vengono più riconosciute, ma siamo chiamati a riconoscere identità fantastiche, se non patologiche, che non hanno altra realtà che quella attribuita loro da chi immagina che corrispondano alla realtà.
Luigi Tedeschi: Il razzismo indigenista, con la cultura woke, l’ideologia gender, l’LGBT e il transumanesimo sono espressioni della cultura liberal americana. La questione razziale prevale sulla questione sociale, la lotta contro le discriminazioni delle minoranze ha sostituito la lotta di classe. Con l’etnicizzazione dei rapporti sociali non si è realizzata l’assimilazione dei “razzializzati” alla società neoliberista occidentale? Il capitalismo, nella sua evoluzione post moderna, non ha trasformato il dissenso identitario in massa militante a sostegno della propria sovrastruttura culturale liberal – progressista imposta dalle élites economico – finanziarie?
Alain de Benoist: L’indigenismo, la cultura woke costituisce un fenomeno nuovo: la razzializzazione delle relazioni sociali, in modo patologico. I “razzizzati” non cercano di definire la propria identità, ma di distruggere quella degli altri (“mascolinità tossica”, “patriarcato bianco eteronormativo”, “razzismo sistemico”, ecc.). Molti di loro hanno il merito di rifiutare l’universalismo, che smascherano facilmente come un etnocentrismo di fatto, ma riescono a contrastarlo solo con affermazioni caricaturali. L’antirazzismo che intendono rappresentare non è altro che razzismo di segno opposto. In queste condizioni, il comunitarismo si trasforma in secessionismo, basato sul rifiuto di ogni diritto comune. Ancora più grave è il modo in cui questa nuova versione della questione razziale tende a invadere ogni cosa, cancellando la questione sociale proprio nel momento in cui questa si pone più che mai acutamente. Si denunciano tutte le forme di dominio… tranne il dominio di classe, si riconoscono tutte le forme di lotta… tranne la lotta di classe. Il capitalismo è risparmiato da ogni accusa, il che non sorprende se sappiamo che tutte queste mode ideologiche (dall’LGBT al neofemminismo universalista, passando per la cancel culture e la teoria del genere) sono state importate dagli Stati Uniti. Allo stesso tempo vengono importati in Europa temi legati alla storia specifica degli Stati Uniti che non hanno nulla a che vedere con la nostra.
Luigi Tedeschi: Il capitalismo non si identifica con il colonialismo. Esso infatti è un sistema suscettibile di infinite trasformazioni e adattabilità ai diversi contesti storici. Il sistema capitalista occidentale e universalista è sopravvissuto alla decolonizzazione e con la globalizzazione ha occidentalizzato il mondo. Il declino della potenza americana e l’emergere del multilateralismo nella geopolitica mondiale, non darà luogo ad un mondo differenziato in tanti capitalismi diversificati? I mutamenti della geopolitica mondiale potranno condurre ad un superamento del sistema capitalista?
Alain de Benoist: Il tentativo di collegare l’anticolonialismo all’anticapitalismo è davvero un tentativo a dir poco pericoloso. Negli “studi postcoloniali”, il capitalismo è trattato solo come un sistema economico e una rete di potere globale che sarebbe intrinsecamente inseparabile da un colonialismo basato sulla nozione di razza: questo è il tema del “capitalismo bianco (o dei Bianchi)”. Il capitalismo è ricondotto al colonialismo, a sua volta ricondotto alla dominazione bianca, mentre il razziale sostituisce il sociale. Di conseguenza, tutto ciò che costituisce l’essenza stessa del capitalismo (rapporti di classe, sfruttamento del lavoro vivo, sovraccumulazione del capitale, feticismo delle merci, rimozione dei limiti, ideologia del denaro come equivalente universale) viene puramente e semplicemente eluso. Da qui l’uso dell’espressione “colonialità del potere”, che in realtà non significa molto. La tesi è tanto più goffa in quanto suggerisce che i paesi ex colonizzatori siano diventati più ricchi grazie alla colonizzazione, mentre oggi sappiamo che è vero il contrario. Quanto al capitalismo, da allora ha dimostrato di non essere legato a nessun contesto particolare, ma di adattarsi altrettanto facilmente a qualsiasi situazione sociale o politica purché possa trarne profitto. La prova è che il dominio del sistema capitalista è stato lo stesso nei paesi che non sono mai stati colonizzati. Il capitalismo non è intrinsecamente legato al colonialismo più di quanto lo sia al sistema patriarcale. Il capitalismo cerca il profitto ovunque lo trovi. Oggi, le aziende capitaliste sono le prime a sottoscrivere valori “antirazzisti” e temi LGBT, o a vendere speciali “kit” identitari di circostanza, per il semplice motivo che ciò massimizza i loro profitti. Domani, per lo stesso motivo, faranno altrettanto bene il contrario. Il capitalismo è indifferente ai valori diversi da quelli di mercato, è indifferente alle culture così come alle considerazioni morali. Vuole di più, sempre di più, anche se ciò significa sempre più precarietà, povertà e disuguaglianza, senza capire che, se le persone aspirano a una certa omogeneità etnica, hanno bisogno ancora di più di omogeneità sociale, vale a dire di una società in cui le disparità di reddito non siano politicamente e moralmente insopportabili.