La trave e la pagliuzza
Aldous, 18 luglio 2024
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Costituisce un caso unico la quasi totale impunità e immunità che la comunità internazionale contemporanea riserva a uno dei suoi Stati. Al di là infatti delle ormai ultradecennali, tradizionali e del tutto disattese ‘risoluzioni’ dell’ONU; al di là degli ‘ordini’ della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale Internazionale che intimano di sospendere immediatamente le politiche genocidiarie; al di là dell’indignazione politico-morale che nonostante tutto si va diffondendo, le dichiarazioni e le pratiche dello Stato di Israele rifiutano in modo deciso, sistematico e sprezzante qualunque richiamo alla legalità e all’umanità. A quale altro stato, popolo e comunità sarebbe mai permesso un simile atteggiamento? Se non si risponde a questa domanda, se non la si pone, ogni analisi della questione palestinese rimane viziata alla radice. Ci si rassegna e amen. O persino, ed è il caso più frequente in Occidente, si trovano o si inventano tutta una serie di giustificazioni allo sterminio di uomini, donne, vecchi, bambini.
Sensibilissimi invece diventano gli operatori dei media e i loro decisori politici di riferimento quando si tratta di difendere i più fantasiosi desideri individuali (per lo più di natura sessuale, e quindi privata, ma non solo) di frange di cittadini occidentali, presentando tali desideri come sacrosanti diritti che vanno legalmente riconosciuti. E imponendo un vero e proprio maccartismo nei confronti di posizioni, scritti, idee che valutino in modo critico il terreno ultraindividualista, liberista e – va detto con chiarezza – capitalista, nel quale le pretese gender e woke germinano, crescono, affondano. «The Culture of Complaint», la cultura del piagnisteo, della quale già parlava Robert Hughes trent’anni fa (in un libro edito in Italia da Adelphi) è diventata la Cancel Culture, una prospettiva barbarica che intende coprire con una coltre di moralismo assoluto e bigotto intere epoche, opere, filosofie, estetiche e anche concetti della fisica e della biologia, riducendole al silenzio e in prospettiva cancellandole.
Wokismo e Cancel Culture sono nate e prosperano nello Stato che dell’Occidente è attualmente il padrone, contribuendo a diffonderne i paradigmi appunto individualistici e dissolutori di qualunque legame sociale, di qualunque memoria, di qualunque bellezza. Come afferma con chiarezza il politologo Marco Tarchi sulla Stampa (18 aprile 2024) rispondendo a una domanda di Francesca Paci: «La cultura woke è un puro prodotto di esportazione dell’americanismo. O, per dirla altrimenti, una forma alternativa di americanizzazione. Che porta con sé, ben al di là della rivendicazione di una specifica eredità culturale della popolazione di discendenza africana, un profluvio di istanze particolaristiche, presentate come diritti di microgruppi sociali, destinate a disgregare l’identità collettiva dei popoli e delle nazioni entro cui si insinuano. L’obiettivo finale del wokismo, malgrado le apparenze, è l’affermazione di una società iperindividualistica».
Affetta da questo virus che la disgrega, l’Europa sembra indifesa di fronte all’attacco sempre più fanatico che viene condotto alla sua cultura, ai suoi libri, alla sua arte, alle forme della sua grandezza, condannate in quanto razziste, maschiliste, omofobe, patriarcali e così via e così via nella litania stucchevole delle geremiadi sedicenti inclusive e volte invece ad escludere sino alla rimozione.
L’Unione Europea, questo aborto di comunità, è l’attiva promotrice di tale autodissoluzione della vicenda storica europea, della complessità della sua cultura, della varietà irriducibile dei popoli che la abitano. L’UE giorno dopo giorno sostituisce a tale unità molteplice l’uniformità di cittadini diventati atomi senza relazione, vessati da divieti e ingiunzioni sempre più asfissianti su ciò che debbono mangiare, sui limiti di velocità, sulle scelte sanitarie, su una finzione green che nasconde affari e interessi delle multinazionali anche informatiche, visti gli altissimi costi energetici necessari a sostenere il virtuale, la cosiddetta smaterializzazione, visto che anche la più semplice richiesta su un motore di ricerca o la scelta di che cosa ordinare al ristorante con un QR – invece che con il foglio di carta di un tradizionale menu – comporta un consumo energetico che per il fatto di essere invisibile non è meno reale. L’insieme dell’infrastruttura digitale comporta consumi di energia in una misura tale da far impallidire quelli di una qualunque fabbrica siderurgica. Per assemblare ciascun cellulare o dispositivo digitale è infatti necessaria un’enorme quantità di lavoro (sfruttato) nelle miniere, di trasporto in ogni parte del globo, di trasformazione della materia prima in componenti minaturizzate. Ogni volta che utilizziamo tali dispositivi, e in qualunque modo lo facciamo, sfruttiamo un insieme molto alto di fonti combustibili, elettriche ed elettroniche. L’esito di questi e di altri processi è l’implacabile depauperamento delle risorse ecologiche: «Contrariamente a quanto talvolta si pensa, sofisticazione e miniaturizzazione hanno quindi appesantito l’impatto ambientale del digitale e nel lungo periodo lo condannano. […] La smaterializzazione pensata come soluzione ai problemi ecologici è un mito» (Guillaume Travers, éléments, n. 192).
I cittadini dell’Occidente americanizzato sono persone che guardano la pagliuzza del motore a scoppio e non vedono la trave dello sperpero inconcepibile prodotto da un motore a trazione elettrica; scorgono la pagliuzza di un singolo ‘femminicidio’ e sono ciechi allo sterminio di centinaia di migliaia di donne nelle guerre della NATO e di Israele. Il giovane rabbi li definiva in questo modo: «Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!» (Mt, 15, 14). Studiare, pensare, scrivere, capire è il modo che a tutti è dato di evitare questa caduta.