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Cultura Metapolitica

Quale lingua per l’Europa? (1/3)


Conosciamo la battuta di Henry Kissinger, l’ex segretario di Stato di Nixon e Gerald Ford: «Europa, a quale numero di telefono?» Avrebbe potuto aggiungere: «Europa, in quale lingua?» È questo l’argomento di un ricco articolo che Armand Berger, già autore di «Tolkien, l’Europe et la tradition», dedica alle «realtà linguistiche dell’Europa» nel primo numero di «Cahier d’études pour une pensée européenne» (La Nouvelle Librairie), la rivista del Pôle Études de l’Institut Iliade, che mantiene tutte le promesse. Lo trovate anche sull’ultimo numero di «Éléments» attualmente in edicola.


François Bousquet

ÉLÉMENTS: L’Europa, apprendiamo, è composta da ventitré lingue e più di sessanta lingue regionali o minoritarie. Non c’è bisogno di andare a cercare la Torre di Babele in non so quale Babilonia, non è forse nel nostro continente? Quale unità linguistica c’è in questa fioritura di lingue, che comunque provengono essenzialmente da un ramo comune?

ARMAND BERGER: La maggior parte di queste lingue, ad eccezione di alcune, deriva lontanamente da una lingua molto antica, che ricostruiamo utilizzando la linguistica comparata. Si tratta dell’indoeuropeo. Questo insieme dai contorni ben definiti – la scienza in questo campo non fa altro che progredire e perfezionarsi – è l’antenato di tutte le grandi lingue che parliamo oggi in Europa. Ne è la base comune, l’unità linguistica, se vuoi. Per parlare dei linguaggi del tempo bisogna parlare di realtà linguistiche. Conoscere oggi qual è la natura di queste lingue che parliamo, vedere come interagiscono tra loro. Da queste realtà emerge che, come le civiltà, esse sono mortali, quindi vive. Sono animate da un dinamismo folgorante o da un’energia già troppo consumata. Questo è il movimento naturale. Ciò che va osservato è che, nel nostro tempo, è in atto un movimento completamente nuovo, una lingua è in procinto di soppiantare le altre, e non ha alcuna intenzione di coesistere con esse: l’inglese. Un’osservazione ormai consolidata fin dalla seconda metà del secolo scorso. Si tratta di un problema chiaro, che deve essere affrontato in modo serio ed efficace. Tuttavia, sembra che ci vorrà del tempo, nonostante sembri che la questione sia urgente, perché la ricchezza delle diverse lingue parlate in Europa è minacciata. È quindi opportuno vedere come tenere conto di questa realtà dell’onnipresenza dell’inglese, proporre le lingue materne come portabandiera di questa ricchezza linguistica europea, pensare ad un multilinguismo basato sulle realtà piuttosto che su un bilinguismo forzato (inglese + madrelingua), spesso di livello mediocre, i cui limiti sono molto vaghi, del quale non sappiamo davvero cosa fare.

ÉLÉMENTS: Ricorderai le parole, apocrife o meno, di Umberto Eco, il quale diceva che la lingua dell’Europa è la traduzione. Che cosa significa? La formula non può applicarsi, in ultima analisi, a tutta la Terra? Basterebbe acquistare un cervello artificiale da OpenAI e noleggiare i servizi del software di traduzione…

ARMAND BERGER : È probabile – e qui tocchiamo la storia delle mentalità – che gli Europei abbiano sempre avuto questa inclinazione a voler capire cosa c’è di tanto diverso nella loro realtà comune. Perché, fin dall’antichità, gli Europei si sono sempre sforzati di copiare e ricopiare le opere, di tradurle, di distribuirle ai quattro angoli d’Europa? Le parole attribuite a Eco hanno un significato semplice: la traduzione è il desiderio sincero e profondo di comprendere l’altro. Quest’altro che ci somiglia, ma che, date le sue particolarità, opera a una certa distanza e, con originalità, manifesta il proprio genio. E quando c’è del genio altrove, allora ci affrettiamo per naturale curiosità a capirlo. La traduzione è la manifestazione di una realtà linguistica dinamica e che tale deve rimanere.

ÉLÉMENTS: Hannah Arendt ha detto della lingua tedesca che era la sua patria. Che legami hanno le lingue e le nazioni?

ARMAND BERGER: La patria (carnale e spirituale) e la nazione non si confondono per forza. D’altra parte, spesso abbiamo l’idea che una lingua equivalga a un paese, a una nazione. Ciò vuol dire cadere in errore. Non c’è mai stata una nazione in cui si parlasse una sola lingua. Ci sono stati tentativi in tal senso, tutti falliti. A volte lasciando gravi conseguenze. Così come in Francia con la Terza Repubblica. È, piuttosto, necessario dire che in una nazione esistono lingue che non sono necessariamente legate all’idea di nazione. Vedi le lingue regionali, i dialetti. Si potrebbe anche dire però che stiamo parlando di lingue nazionali. Ma queste lingue nazionali non sono limitate da frontiere tracciate arbitrariamente. A volte si fermano prima di queste frontiere, a volte si estendono oltre tali confini. A differenza delle nazioni, le lingue non conoscono confini perché sono intrinsecamente dinamiche. Osservando un atlante linguistico si rimane colpiti nel vedere che i confini linguistici si sovrappongono poco ai confini nazionali. È nella natura mutevole delle lingue, parlate in aree dai contorni sottili, che si trovano in parte le sfide delle realtà linguistiche dell’Europa nel nostro tempo e in quello a venire.


Quali confini per l’Europa? (2/3)


Dove localizzare l’Europa, non solo nel tempo, ma anche nello spazio; non solo nella storia, ma anche nella geografia; non solo nella politica, ma anche nelle sue caratteristiche culturali, linguistiche, paesaggistiche, ecc. ? Una questione vasta e complessa che l’accademico Olivier Eichenlaub affronta in un articolo eccezionalmente esaustivo « Frontières en Europe, frontières de l’Europe ». Lo si legge nel primo numero del «Cahier d’études pour une pensée européenne» (La Nouvelle Librairie), la rivista del Dipartimento di Studi dell’Istituto Iliade. Lo trovate anche sull’ultimo numero di «Éléments» attualmente in edicola.

François Bousquet


ÉLÉMENTS: Perché la definizione comunemente data di confini (che si sovrappone a quella di Stati) non è del tutto soddisfacente? Troppo unidimensionale? Troppo riduttiva? Troppo schematica?

OLIVIER EICHENLAUB: Nella definizione più comunemente accettata, il confine appare come un separatore assoluto, ai lati del quale si organizzano gruppi che non hanno nulla a che vedere tra loro. Questa definizione è del tutto strumentale per la divisione delle entità giuridiche, come le regioni amministrative o gli stati. Organizza la distribuzione delle tessere della previdenza sociale, dei documenti di circolazione per l’immatricolazione dei veicoli, la riscossione delle tasse e anche la raccolta dei rifiuti. Ma se questo confine discrimina di fatto l’appartenenza dei territori, non mostra altro che il «livello zero», molto impoverito rispetto alla realtà dei popoli e le divisioni che si sovrappongono nello spazio e si manifestano nel tempo, in particolare in un continente così ricco e complesso come l’Europa.

Francia, Germania, Belgio e Svizzera, ad esempio, sono entità statali separate e confinanti riconosciute a livello internazionale. In quanto tali, possono essere rappresentate da confini «semplici» che condividono l’influenza della loro attuale giurisdizione. Ma, tra Francia e Germania, questa separazione assoluta cancella automaticamente la specificità della zona di confine che le unisce: l’Alsazia, che la legge collega alla Francia ma la cui lingua e cultura storica potrebbero giustificare una colorazione «più germanica» (o viceversa a seconda dell’epoca). Lo stesso ragionamento si può fare per la Svizzera, che appare un’entità uniforme, anche se la diversità che costituisce la sua specificità giustificherebbe un gradiente per avvicinarla alla Francia, alla Germania o all’Italia, secondo una logica che mette in relazione sia le caratteristiche linguistiche che la vicinanza geografica. Si pone lo stesso problema per il Belgio (Fiandre e Vallonia) così come per molte altre regioni europee. Quando i problemi sono semplici, possiamo accontentarci di una soluzione semplice; ma quando sono complessi (e in molti casi europei lo sono), dobbiamo anche fornire una soluzione complessa, e quindi arricchire la definizione che diamo di confini.

ÉLÉMENTS: Quali sono i criteri su cui basarsi per delimitare i confini, soprattutto nelle zone di frontiera, dove i «confini» si intrecciano senza necessariamente annullarsi?

OLIVIER EICHENLAUB: Per un approccio più complesso, a quanto pare, potrebbe in apparenza essere sufficiente cambiare il criterio con cui tracciamo le mappe, per tenere meglio conto delle realtà sul campo: non considerare più l’appartenenza statale, ma la lingua o la cultura. E per estensione, perché non i paesaggi, l’architettura o le tradizioni culinarie, che sono anch’essi elementi tangibili di distinzione regionale? L’idea è attraente, ma essa ci porta a un risultato altrettanto semplicistico: le Fiandre non sono solo una regione in cui si parla fiammingo al di fuori dei Paesi Bassi; è il Belgio, così come l’Alsazia è la Francia. In realtà, per fare al meglio, bisognerebbe tenere conto contemporaneamente di tutti i criteri di distinzione (il cui numero non è noto a priori e probabilmente varia a seconda dei casi) e combinarli tra loro secondo una logica di prossimità geografica. Purtroppo il metodo non è stato ancora inventato ed è possibile che mai lo sarà.

Di conseguenza, fatta eccezione per la caratterizzazione delle giurisdizioni amministrative (che talvolta sono solo temporanee nella storia), i confini presentano una semplificazione che riflette necessariamente un’immagine errata della realtà dei territori e delle popolazioni. Non tenendo conto né della multi-appartenenza né della multi-scalarità delle identità, questa semplificazione ci mette di fronte a scelte necessariamente riduttive non appena ci impegniamo a mappare i confini per circoscrivere qualsiasi cosa nello spazio. Se volessimo essere provocatori, potremmo dire che il confine impoverisce la realtà geografica, fino a negarne in certi casi l’esistenza. Ribaltando il problema si potrebbe allora dire che è la frontiera che non dovrebbe esistere, perché spesso è inefficace nel proporre una regionalizzazione degna della ricchezza e della diversità del mondo.

ÉLÉMENTS: Obiezione: decostruendo troppo la nozione di confine – da un sottoinsieme a un latro, da un’appartenenza all’altra, da spazio di confine a zona fluida – i geografi non finiscono per cancellarla?

OLIVIER EICHENLAUB: I politici tracciano i confini, i geografi cercano di capirli. L’approccio ovviamente non è lo stesso, ma abbiamo cercato di trovare un accordo attraverso la nozione di «confine naturale», che unirebbe le realtà geografiche (fiumi, montagne, deserti, ecc.) da un lato, e l’esigenza politica di organizzazione e difesa dall’altro. Nella maggior parte dei casi, questo obiettivo ideale è rimasto teorico. Fatta eccezione per enormi ostacoli, come l’oceano o le alte montagne, il confine infatti non è mai altro che il risultato di un compromesso tra gruppi o popoli. In questo senso non è mai assoluto ma sempre relativo, dipende dal valore che gli attribuiscono le popolazioni che lo vigilano, che lo controllano. Ricordiamo per caso l’ultima modifica dei confini francesi relativa alle Alpi nel 1947? E cosa rappresenta questo confine che spostiamo per ragioni puramente pratiche?

Ciò però non cancella i confini, anzi. Essi costituiscono una realtà antica quasi quanto l’umanità, quella dell’identità dei gruppi, del loro insediamento sulla Terra, del loro territorio e dei suoi limiti. Certamente, alcuni oggi vogliono la loro totale eliminazione in nome delle opportunità commerciali offerte dalla globalizzazione; ma altri, al contrario, si battono per il loro rafforzamento, in nome della loro sovranità e della loro autonomia di gestione, e il mondo si trova oggi ad affrontare un processo di rebordering (aumento dei controlli alle frontiere). Di fronte a flussi incontrollati di merci e persone, alcuni costruiscono muri come ultima soluzione. I confini testimoniano quindi, allo stesso tempo, una rinascita e un’erosione dei popoli; si impongono come ultimo tentativo di esistere nella globalizzazione, in particolare quando si tratta di affrontare il terrorismo (soprattutto dopo l’11 settembre), l’immigrazione clandestina, oggi associata a questioni di sicurezza interna, o più semplicemente la standardizzazione degli stili di vita. Da questo punto di vista, i confini sono ovviamente legittimi e talvolta ben accetti. Ma ciò non toglie la complessità dei problemi legati ai confini. Questa è anche una delle difficoltà che l’Europa incontra nella gestione delle crisi migratorie: dov’è questa frontiera da controllare? A Calais? A Lampedusa? O in una rinnovata diplomazia con l’Africa del Nord, come esisteva ancora prima delle Primavere Arabe?

ÉLÉMENTS: Obiezione nell’obiezione: per definire i confini esterni dell’Europa – che è oggetto del tuo studio – non sei obbligato a violare la definizione, ripeto, eccezionalmente ricca, che dai dei confini? Alla fine siamo come il grande (ma qui discutibile) Marco Aurelio: romano come Antonino, ma universale in quanto essere umano…

OLIVIER EICHENLAUB: La risposta sta nella nozione di scala, assolutamente centrale in geografia ma talvolta dimenticata in geopolitica. La scala dell’universo esiste, è difficile negarlo. Su questa scala, siamo tutti parte dell’umanità (o della Terra). Ma sarebbe un peccato dimenticare che ci sono molte tappe prima di arrivare a questa fase finale, che in definitiva è utile e discriminante solo di fronte a una forma di vita extraterrestre. È la scala della città e dei suoi quartieri, della regione o del paese, rispetto alla quale ci definiamo molto più frequentemente e con molta più convinzione. In questa successione «verticale» di identità, non è detto che le traiettorie siano uguali per tutti, e che ogni «livello» abbia sempre la stessa importanza. Cosa conta di più per noi, in un luogo o in un altro, individualmente o come gruppo? Ne consegue che forse non tutti gli europei sono europei allo stesso modo, a seconda che vivano in Francia, nella Repubblica Ceca o in Finlandia, in città o in campagna. Ma ciò non toglie che siano effettivamente europei poiché appartengono tutti, in un dato momento, allo stesso gruppo. E questo insieme, l’Europa, è probabilmente l’elemento più rilevante per costruire un’unità continentale e per il mantenimento della diversità globale, che saranno fonte di ricchezza e pace.

In Europa questa ipotesi deve portare a una riflessione anche sull’organizzazione dei territori. Mentre la legittimità degli attuali Stati nazionali si basa principalmente su una logica di confine semplice e binaria, la strutturazione delle connessioni territoriali all’interno di un sistema federale, quale esisteva ad esempio nei grandi imperi, sembra più capace di conciliare realtà geografiche e amministrazione politico-giuridica. A pensarci bene, fare di Pensieri di Marco Aurelio il proprio libro da tenere sul comodino non è l’idea peggiore…

Le due interviste a cura di François Bousquet ad Armand Berger e ad Olivier Eichenlaub, pubblicate il 26/08/2024 e il 30/08/2024. Titoli in lingua francese: “Quelles langues pour l’Europe ?” e “Quelles frontières pour l’Europe ?”. Traduzione a cura di Piero Sorelli della Roccella.

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