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Europa. Un vaso di coccio nell’era post-globale

Kaputt: così Curzio Malaparte definiva l’Europa alla fine della seconda guerra mondiale. E aggiungeva: «Preferisco questa Europa kaputt all’Europa d’ieri, e a quella di venti, di trent’anni or sono. Preferisco che tutto sia da rifare, al dover tutto accettare come un’eredità immutabile».

A ottant’anni di distanza, Giuseppe Giaccio si interroga sugli esiti di questo rifacimento e sulle prospettive future, dopo essersi soffermato sulla Grande Guerra all’origine della catastrofe e sulle proposte avanzate per venirne fuori: il decisionismo, da un lato, il revisionismo liberale della Scuola di Friburgo e della Scuola austriaca e il keynesismo, dall’altro. Ne scaturisce un quadro che conferma il kaputt malapartiano, anche se stavolta siamo di fronte a macerie non materiali, ma morali, culturali, intellettuali, politiche.

La storia rimane tuttavia aperta. Come diceva Ortega y Gasset, non sappiamo che cosa ci accade e questo non sapere è precisamente quello che ci accade. Vale anche per l’Europa: non sappiamo cosa le accadrà. È una condizione esistenziale non semplice, per alcuni forse disperante, e che esige, per essere padroneggiata, lucidità razionale e chiarezza di pensiero. 

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