Pilato, il Sacro
in Vita pensata
n. 31, ottobre 2024
pagine 32-42
Indice
-Pilato, le fonti
-Pilato, lo scettico
-Pilato, il prigioniero
-Pilato, il filosofo
-Pilato, il disvelatore
Pilato, le fonti
Ponzio Pilato è l’unico nome umano che appaia nel Simbolo Niceno-Costantinopolitano, vale a dire nel Credo dei cristiano-cattolici. L’unico nome dunque che insieme a quello del Cristo venga pronunciato ogni domenica da millenni da parte di tutti i cristiani. Vi viene detto che Gesù morì sotto Ponzio Pilato, fu sepolto e dopo tre giorni risorse. La presenza del nome di questo politico romano in un testo chiave della civiltà mediterranea ed europea è una circostanza del tutto particolare, quasi incredibile. Le motivazioni storico-esegetiche sono naturalmente numerose e plausibili, visto anche il ruolo che al Governatore della Giudea viene attribuito in tutti e quattro i Vangeli canonici e in altri testi cristiani. Le fonti storiche che accennano alla persona e all’azione di Pilato sono due scrittori ebrei del primo secolo, Flavio Giuseppe e Filone di Alessandria1. L’unico riferimento di parte romana è in un breve e ben noto brano di Tacito, il § 44 del libro XV degli Annali: «Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in præsens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudæam, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque; Origine del nome [cristiani] era Cristo, il quale era stato giustiziato sotto l’imperatore Tiberio dal procuratore Pilato; questa esecrabile superstizione [il cristianesimo], momentaneamente repressa, è iniziata di nuovo, non solo in Giudea, la quale è all’origine del male, ma anche a Roma, dove confluiscono e dove si celebrano ogni tipo di atrocità e di oscenità». A queste fonti scritte si aggiunge la scoperta nel 1961 a Cesarea marittima, dimora abituale di Pilato, di una iscrizione che nella parte sopravvissuta recita: «Prima riga: ]S TIBERIÉUM / Seconda riga: [PON]TIUS PI-LATUS / Terza riga: [PRÆF]ECTUS IUDA[EA]E» e che fa probabilmente riferimento a un’opera realizzata sotto il governatorato di Ponzio Pilato. Ci sono poi, come accennato, le notizie fornite dai Vangeli canonici, i quali non sono comunque una fonte storica ma una fondamentale fonte teologica. Queste sono dunque le poche, anche se assai intriganti, fonti. Ma la figura di Pilato va al di là di tali testi. Pilato è un mito la cui presenza è non soltanto quotidiana/settimanale nella professione di fede dei cattolici ma appare in numerose opere letterarie, cinematografiche, filosofiche. Ne ho selezionate alcune che giustificano la centralità e la grandezza di questo nome anche e specialmente per una riflessione sul Sacro.
Pilato, lo scettico
Elio Lamia e Ponzio Pilato si intrattengono amabilmente durante una cena, ricordando il passato, la vita a Gerusalemme, il difficile governo della Giudea. Il procuratore difende il proprio operato, che era stato sempre rivolto a garantire la giustizia e le leggi, a promuovere anche in Giudea lo sviluppo e la pace che il dominio di Roma apportava alle Province dell’Impero. Ma essi, gli Ebrei – «questi nemici del genere umano»2 – «ignorano la filosofia e non tollerano la diversità delle opinioni»3, fanaticamente certi di essere gli unici a conoscere il divino, seppure tra di loro continuamente in confitto sulla interpretazione delle proprie Scritture. Pilato presagisce che questo popolo non sarà mai domato, se non con la distruzione completa della Città santa e con la dispersione. Lamia è d’accordo con lui ma pensa che «in ogni cosa bisogna osservare misura ed equità»4, ricorda anche le virtù nascoste di quel popolo e soprattutto la bellezza delle sue donne, la sensualità straripante di «un’ebrea di Gerusalemme», con le «sue danze barbare, il suo canto un po’ rauco e insieme dolce, il suo odore d’incenso, il suo vivere trasognato […]. Era più difficile fare a meno di lei che del vino greco»5. Lamia non vide più questa donna dopo che lei si unì a «un giovane taumaturgo della Galilea. Si faceva chiamare Gesù il Nazareno, e fu crocifisso non ricordo per quale delitto»; l’amico chiede a Pilato se si rammenta di costui. La risposta del procuratore è segno, epitome, vittoria di un intero mondo, il mondo disincantato, razionale e distante di Roma: «Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio: “Gesù” mormorò “Gesù il Nazareno? No, non ricordo»6. Su queste parole si chiude il racconto, che nelle giuste parole di Leonardo Sciascia, «è un apologo – e un’apologia – dello scetticismo più assoluto (e quindi della tolleranza che ne è figlia)»7.
La fama del più celebre governatore romano è affidata a quella di una dottrina per lui incomprensibile, che lo ricorda solo per condannarne la presunta ignavia. E invece in questo racconto Pilato appare come un uomo giusto, ligio alla romanità, incapace di capire gli eccessi e le favole del popolo che gli era stato affidato. L’atteggiamento del Pilato di Anatole France è, nei limiti di ogni comportamento umano in situazioni così singolari come quelle di una folla fanatica e fanatizzata contro un innocente, la posizione di un politico che si trova di fronte all’ennesimo incomprensibile conflitto tra da una parte i profeti che regolarmente sorgevano nel cuore della società ebraica e dall’altra un Sinedrio custode dell’ortodossia e della propria autorità.
Il racconto di France descrive lo scetticismo di Pilato in modo più convincente rispetto alla ‘attualizzazione’ politico-giuridica che qualche anno fa Gustavo Zagrelbesky ha tentato del processo a Gesù8. Per Zagrelbesky Gesù di Nazareth, il Sinedrio di Gerusalemme, Pilato, la folla diventano infatti un anacronistico emblema dei diversi modi di intendere la democrazia. Le masse che qualche giorno prima avevano esaltato il Cristo con il loro Osanna!, davanti al Pretorio gridano invece Crucifige!. Sobillato dall’oligarchia del Sinedrio, temuto dall’autocrazia di Pilato, il popolo venne chiamato in realtà a ratificare con la forza del numero una decisione già presa altrove. Se è vero che sia il dogmatismo
che si crede in possesso della verità sia lo scetticismo che nega la possibilità di valori assoluti possono entrambi utilizzare le masse in funzione puramente strumentale, il mito di quel processo rimane del tutto refrat-tario a una lettura così tecnico-giuridica.
Se lo scetticismo di Pilato non gli impedisce di «dare soddisfazione alla moltitudine» (Mc 15,15), la sua figura in quell’evento ha un significato molto più radicale rispetto a una semplice lettura demagogica e attinge invece anche al conflitto tra delle concezioni religiose fantasiose e tuttavia feroci da una parte e dall’altra il rifiuto di ogni eccesso, di ogni ὕβρις da parte di un uomo e di un politico pagano. Rifiuto che induce il governatore a lasciare che il fanatismo ebraico risolva al proprio interno una questione certamente non nuova – il conflitto tra profezia e istituzione –, tanto da non ricordare nemmeno più, alcuni anni dopo, quel particolare episodio di un conflitto che nel giudaismo era stato secolare. E in effetti un politico romano non poteva che scorgere nel silenzio del profeta un autolesionismo così insensato e trascurabile da non meritare che ne rimanesse memoria, nonostante la stranezza e l’inquietudine che attraversavano quel processo: «Pilato ebbe ancor più paura ed entrato di nuovo nel pretorio disse a Gesù: ‘Di dove sei?’. Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: ‘Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e di metterti in croce? Rispose Gesù: ‘Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto’» (Gv 19, 8-11).
Pilato, il prigioniero
Woland prende casa a Mosca negli anni Venti con il suo sèguito, composto dal fedele Korov’ev-Fagotto, dall’enorme gatto nero Behemoth, da Azazello, dalla strega Hella sempre nuda e da Abadonna, la nuda morte. Gli occhi di Woland sono la sua identità, perché «la lingua può nascondere la verità, ma gli occhi mai»9. E gli occhi di questo viaggiatore, consulente, mago, ipnotizzatore, artista sono, nel destro, «una scintilla dorata, che avrebbe penetrato fin nell’intimo qualsiasi anima, il sinistro vuoto e nero, una specie di stretta cruna angolare, un orifizio nel pozzo senza fondo di tutte le tenebre e di tutte le ombre»10.
Woland e i suoi assistenti organizzano uno straordinario spettacolo al Teatro di Varietà della capitale russa. In quella memorabile serata essi dimostrano di conoscere più di chiunque altro l’umanità, i suoi desideri, le passioni, l’ingenuità e la meschina avidità. Prima di quello spettacolo, il mago ha previsto e in qualche modo causato la morte di Berlioz – il presidente di un’associazione moscovita di scrittori – e dopo quella serata lui e i suoi compagni producono incendi, prodigi, follie di ogni genere. Perché Woland è «Ein Teil von jener Kraft / Die stets das Böse will, und stets das Gute schafft; una parte della forza che vuole sempre il male e opera sempre per il bene»11; infatti, «che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose…»12.
Per il suo annuale ballo di gala, questa entità chiede di fare da padrona di casa a Margherita Nikolaevna, una donna bellissima e intelligente, che accetta l’invito solo perché ha compreso che in questo modo potrà di nuovo riavere l’uomo che ama con un trasporto totale e che l’invidia e la malvagità hanno ridotto a vivere in una casa di cura per malati di mente. Il Maestro che Margherita adora ha scritto una storia di Ponzio Pilato che non è piaciuta al potere comunista e che ha indotto l’Autore a tentare di bruciare il proprio manoscritto ma «nulla spariva, l’onnipotente Woland era davvero onnipotente»13, tanto da restituire a Margherita il suo Maestro e al Maestro quella sua opera che è il vero, enigmatico, denso nucleo di questo romanzo di Bulgakov.
Dal testo del Maestro risulta infatti evidente che il procuratore della Giudea sa bene che l’accusato che gli hanno posto davanti in quella mattina del giorno quattordici del mese di Nisan, quel «filosofo che aveva escogitato una cosa così incredibilmente assurda come la bontà universale degli uomini»14 – veramente convinto che «non esistono uomini cattivi»15, neppure il centurione che lo torturava, quell’ingenuo delinquente Jeshua Hanozri, è innocente. Ma, per tante ragioni, Pilato non spinge la propria azione sino a salvarlo. Perché Pilato odia quell’orrenda fogna di fanatici che è Jerushalajim, perché è stanco di tutto, perché il Sinedrio tiene davvero alla morte di quello straccione, perché è un poco vile. Ma quella condanna, di cui pure dichiara di lavarsi le mani, quella morte sul monte dietro la città, quella prova che «ogni potere è violenza sull’uomo», come Jeshua dichiara16, non abbandoneranno più la sua vita e i suoi pensieri. L’Hanozri e il procuratore staranno sempre insieme – «se parleranno di me, parleranno subito anche di te!»17 – e questa immortalità, questa gloria senza tramonto, questa continua rimemorazione del suo nome nelle chiese di tutto il mondo, saranno parte della condanna di Pilato, saranno la sua prigionia per sempre.
Ma proprio Margherita e il suo Maestro daranno a Pilato la pace, liberandolo dal suo destino di sogni e di incubi, di immobilità e di memoria, di aridi e sempre uguali pleniluni… «così parlava Margherita… e la memoria del Maestro, l’inquieta e martoriata memoria del Maestro cominciò a spegnersi. Qualcuno lo lasciava libero, come poco prima egli aveva lasciato libero l’eroe da lui creato. Questo eroe era scomparso, era scomparso irrevocabilmente, perdonato nella notte fra il sabato e la domenica, il figlio del re astrologo, il crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato»18, che è il vero protagonista di un ro-manzo inquietante e ironico, struggente e magnifico, capace di cogliere sino in fondo la complessità che la figura di Pilato incarna, le tante strade che in essa convergono, esplodono, si trasformano.
Pilato, il filosofo
Il testo nel quale l’intelligenza antica e analitica di Ponzio Pilato emerge nella sua potenza, ironia e serietà è un brano breve e fulminante dell’Antichrist nel quale Nietzsche analizza e interpreta le seguenti righe del Vangelo di Giovanni (18, 37-38): «Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Gli dice Pilato: “Che cos’è la verità?” E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei». Nietzsche ne interpreta il significato ponendosi totalmente dalla parte di Pilato filosofo:
Devo forse aggiungere che in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata? Pilato, il governatore romano. Prendere sul serio un affare tra Ebrei, è una cosa di cui non riesce a convincersi. Un ebreo di più o di meno, che importa?… Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola “verità”, ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore – la quale è la sua critica, persino il suo annientamento [seine Kritik, seine Vernichtung selbst]: ‘che cos’è verità?’
Τὶ ἐστιν ἀλήθεια; che cos’è verità? Si tratta di una domanda che è nello stesso tempo l’orizzonte della filosofia e il suo sorgere. Che cosa sia verità è infatti una delle tre questioni con le quali e attraversando le quali l’indagine filosofica definisce se stessa, il proprio oggetto, il proprio statuto. Le altre due domande riguardano l’essere e il tempo. Anche da qui l’ontologia declina la propria forza: la verità è sfuggente, complessa, cangiante perché il Sein e il Dasein, l’essere e l’esistenza, sono tempo in atto.
Sfuggente, complessa e cangiante appare la verità a Pannychis XI, una vecchia sacerdotessa che a Delphi è stata a lungo voce di Apollo, che lo è ancora ma che è sempre più oppressa dai tanti oracoli con i quali il dio si è divertito e si diverte a confermare le fantasie, le imposture, le assurdità che intessono le vite dei mortali. Per togliersi di torno l’ennesimo devoto che voleva sapere da Apollo se suo padre fosse veramente suo padre e sua madre sua madre, profetizzò a Edipo che costui avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Una profezia assai improbabile, lontana dalla verità e che tuttavia sarebbe diventata realtà. Nel riprendere questo antico mito, Friedrich Dürrenmatt moltiplica le versioni del medesimo evento e le dissemina in un variare di intrecci che costituisce l’essenza della verità, l’arcano della decifrazione, il potere del taciuto. La realtà «non smetterà di cambiare faccia se noi continueremo a indagare» poiché «la verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta»; e questo accade anche perché «tutto è connesso con tutto. Dovunque si cambi qualcosa, il cambiamento riguarda il tutto»20.
La beffarda intelligenza di Dürrenmatt restituisce la forza dell’enigma e giunge alla eterogenesi di un racconto che vorrebbe dissolvere il mito e ne testimonia invece in ogni riga la potenza e la verità, poiché «come sempre in effetti la verità è atroce»21. Guardare a fondo tale verità e non tremare, anche questo è la filosofia e anche per questo Pilato è un filosofo capace di porre a chi addirittura afferma di essere lui la verità la domanda essenziale e ironica sullo statuto e sul significato della verità, la domanda che lo accomuna ad Eraclito e ad Apollo: «ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει. Il signore, infatti, il cui oracolo è in Delphi, non parla né nasconde ma indica/suggerisce»22.
Pilato, il disvelatore
Non è dunque un caso che Dürrenmatt abbia dedicato proprio a Pilato uno dei suoi racconti più disvelatori. In tale racconto Pilato sa che la figura che ha davanti a sé è un dio. Lo sente subito e questa certezza non lo abbandona. Il suo naturale docetismo di pagano gli fa pensare che l’aspetto sottomesso, emaciato, umile e sofferente con il quale quel dio si presenta al suo giudizio sia «il più crudele fra quanti potevano ingannare gli uomini, solo un odio inimmaginabile poteva averlo spinto a presentarsi in quella volgare mascherata»23. Tanto più rimane stupito e inquieto quando, contrariamente alle sue aspettative e previsioni, le frustate dei legionari non slittano «sul dio come sul marmo»24 ma incidono nella sua carne con tutto il reale tormento di una tortura.
Sempre più plausibile diventa quindi la sensazione e il sospetto che lui, Pilato, «doveva necessariamente perire nell’impatto col dio, sfracellarsi contro di lui, come uno scaraventato contro uno scoglio dall’onda»25.
Anche se Dürrenmatt non lo dice, Pilato ripensa forse al sogno che sua moglie, preoccupata, gli ha riferito: «Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: “Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua”» (Mt, 27, 19). E in effetti c’è qualcosa di singolare in quel dio che non risponde quasi nulla alle domande che il Governatore della Giudea gli pone – «ma Gesù non rispose più nulla, sicché Pilato ne restò meravigliato» (Mc 15,5) – tanto che (spinto soprattutto dallo stupore e dalla volontà di stanare il dio dal suo nascondimento e costringerlo a mostrare la sua potenza) nonostante gli appaia evidente la sua innocenza (Pilato risponde più volte alla folla e ai capi giudei di non vedere in Gesù nessuna colpa), «rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso» (Mc 15,15). Quella folla miserabile e fanatica, quei sacerdoti ebrei ipocriti e invidiosi, appaiono a Pilato un’epitome, una sintesi della miseria che l’umano rappresenta ai suoi occhi disincantati e raffinati: «Pareva che la folla avesse un volto solo, ed era il volto di tutti gli uomini contemporaneamente, una faccia mostruosa, minacciosa»26.
Di fronte a quella rivoltante plebaglia, «tremendo si mostrava ora il dio ai suoi occhi»27 e da tale potenza pretende che si mostri, che stupisca, che si vendichi. Tale è infatti un dio, un’entità che non trova ostacoli alla propria vendetta e se li trova li supera di certo. Tale è il cuore del sacro, questo è il vero e universale rapporto tra il divino e l’umano. Anche in Cristo, anche nel cristianesimo, «fra il dio e l’uomo non esiste altra intesa che la morte, e altra pietà che la maledizione, altro amore che l’odio»28. La dimostrazione sta nel fatto che l’intera storia dell’umanità cristiana da quel momento, dall’assassinio di Gesù, sta sotto il segno di una colpa inemendabile che soltanto una Grazia senza limiti e senza senso, la Grazia che ad esempio è protagonista del romanzo di Dürrenmatt La Valle del Caos29, può riscattare, nel senso che può fingere che una simile enormità, gli umani che uccidono un dio, non sia avvenuta o se avvenuta non abbia di fatto alcuna rilevanza per la perfezione del dio, per la sua immortalità che nessuna tortura, nessuna crocifissione possono scalfire. Si comprende in questo modo che la vendetta del dio cristiano è molto più sottile e totale della aperta vendetta che Dioniso attua contro il rifiuto di Penteo di riconoscere la sua divinità. Siamo infatti di fronte a due umani, Penteo e Pilato, e a due divinità, Dioniso e Cristo. Il primo umano rifiuta esplicitamente di riconoscere un dio in quello straniero che all’improvviso è giunto a Tebe, salvo poi a poco a poco da lui farsi ammaliare e portare alla rovina. Pilato invece riconosce subito in quel profeta straccione il dio ma anch’egli, come Penteo, lo sfida a mostrarsi. La vendetta del Cristo consisterà nella vana attesa di questa epifania, della quale tuttavia Pilato era certo. Recatosi di corsa con il suo cavallo sul monte del Calvario, invece di vedere Gesù tranquillamente in piedi dopo essere sceso dalla croce, lo trova ancora appeso «e proprio sopra la sua faccia pendeva il volto morto del dio»30.
Quando, tre giorni dopo, la tomba del dio viene trovata vuota, Pilato ancora una volta vi si reca e forse (non ne abbiamo certezza ma molti indizi) di fronte a quell’immenso vuoto muore. Una morte che però diventa anche per lui la resurrezione del proprio nome, il nome di Ponzio Pilato, ripetuto per millenni in tutte le chiese cristiane ogni domenica nel Credo: «Crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato; passus et sepultus est». La vendetta del dio cristiano verso Pilato è consistita nel dare ragione a Pilato, non quando Pilato se lo aspettava ma nel sempre di un gesto sacro come quello del capro espiatorio. Rispetto ad altre forme, la peculiarità di quella cristiana consiste anche nel fare del dio stesso tale capro. Capro che è una figura dionisiaca. Ponzio Pilato è dunque il disvelatore dell’identità tra Cristo e Dioniso, quella che permette a Nietzsche di firmare con l’uno o l’altro nome i biglietti scritti a Torino tra la fine del 1888 e l’inizio del 1889.
“Quid est veritas?“. La risposta alla domanda del romano è: “Io, Dioniso, sono la verità, che in questo momento ti appare nella forma di un dio crocifisso. Ma tu da questa forma non ti farai ingannare”. Dioniso è infatti la compresenza del sacrificatore, del sacrificato e del dio al quale si sacrifica, allo stesso modo del rito cattolico dell’eucarestia, nel quale il sacerdote è soltanto il tramite del dio che trasforma se stesso nel pane e nel vino che sarà mangiato e bevuto dai fedeli, i quali onorano colui che divorano, assorbendo dalla sua sostanza la forza del divino. Un rito simile a quello scolpito nelle parole che Dioniso in forma di vite rivolge al capro che se ne nutre: «κεῖρε, κάκιστε, γναθμοῖς ἡμέτερον κλῆμα τὸ καρποφόρον· ῥίζα γὰρ ἔμπεδος οὖσα πάλιν γλυκὺ νέκταρ ἀνήσει ὅσσον ἐπισπεῖσαι σοί, τράγε, θυομένῳ. Divorami soltanto i tralci ricchi di frutti: le radici produr-ranno ancora abbastanza vino per irrorarti, quando verrai sacrificato!»31. È questa la vera formula della resurrezione, di una resurrezione nell’immanenza, la cui potenza ha investito Ponzio Pilato, il quale dall’impatto con il dio non si è sfracellato, come temeva, sulle onde del tempo ma ogni volta rinasce nella perennità del Sacro.
Alberto Giovanni Biuso
Note:
1. Rispettivamente nella Guerra giudaica, nelle Antichità giudaiche e, Filone, nella Ambasceria a Gaio.
2. A. France, Il procuratore della Giudea, trad. e nota di L. Sciascia, Sellerio, Palermo 1988, p. 17.
3. Ivi, p. 26.
4. Ivi, p. 29.
5. Ivi, pp. 30-31.
6- Ivi, p. 31.
7. Ivi, p. 36.
8. G. Zagrelbesky, Il «Crucifige!» e la democrazia, Einaudi, Torino 1995.
9. M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, trad. di V. Dridso, Einaudi, Torino 1996, p. 188.
10. 10 Ivi, p. 287.
11. J.W. Goethe, Faust, trad. di F. Fortini, Mondadori, Milano 1990, vv. 1336-1337, pp. 102-103.
12. M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, cit., p. 496.
13. Ivi, p. 337.
14. Ivi, p. 360.
15. Ivi, p. 32.
16. Ivi, p. 35.
17. Ivi, p. 361.
18. Ivi, pp. 432-433
19. F.W. Nietzsche, L’Anticristo, in «Opere», a cura di G. Colli e M. Montinari, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1975 e sgg., vol. VI/3, p. 229.
20. F. Dürrenmatt, La morte della Pizia, trad. di R. Colorni, Adelphi, Milano 1988, pp. 64 e 48.
21. Ivi, p. 33.
22. Eraclito, detto 67 Mouraviev; B 93 Diels-Kranz; trad. di G. Fornari, in Eraclito: la luce dell’oscuro, Olschki, Firenze 2017, pp. 27-28.
23. F. Dürrenmatt, «Pilato», in Romanzi e racconti, a cura di E. Bernardi, trad. di U. Gandini, Ei- naudi-Gallimard, Torino 1993, p. 737.
24. Ivi, p. 741.
25. Ivi, p. 739.
26. Ivi, p. 743.
27. Ivi, p. 741.
28. Ibidem.
29. In Romanzi e racconti, cit., pp. 587-681.
30. Id., Pilato, cit., p. 745.
31. Leonida di Taranto, Anthologia palatina, IX, 99, in K. Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita
indistruttibile, trad. di L. Del Corno, a cura di M. Kerényi, Adelphi, Milano 1998, p. 234.