In un momento in cui la battaglia per le sanzioni avvelena i rapporti tra Europa e Russia, Alain de Benoist consegna alla rivista Elements le 7 chiavi per comprendere le origini della crisi ucraina.
La vicenda ucraina è una faccenda complessa e anche seria (in un altro tempo e in altre circostanze avrebbe potuto benissimo dar vita a una guerra regionale o addirittura globale). La sua complessità deriva dal fatto che i dati a nostra disposizione possono portare a giudizi contraddittori. In tali circostanze, è quindi necessario determinare cosa è essenziale e cosa è secondario. Ciò che è essenziale per me è il rapporto di forze esistenti su scala globale tra i partigiani di un mondo multipolare, di cui faccio parte, e coloro che desiderano o accettano un mondo unipolare soggetto all’ideologia dominante rappresentata dal capitalismo liberale. Da una tale prospettiva, tutto ciò che contribuisce a diminuire la presa americano-occidentale sul mondo è una cosa buona, tutto ciò che tende ad aumentarla è una cosa negativa.
Avendo oggi l’Europa abbandonato ogni desiderio di potere e di indipendenza, è ovviamente la Russia a costituire allo stato attuale la principale potenza alternativa all’egemonismo americano, se non all’ideologia dominante di cui l’Occidente liberale è il principale vettore. Il «principale nemico» è quindi a Occidente. Tuttavia, non ho alcuna simpatia per il deposto presidente ucraino. Yanukovich era ovviamente un personaggio detestabile, oltre che un autocrate profondamente corrotto. Lo stesso Putin alla fine se ne rese conto – un po’ tardi, è vero. Né sono un grande fan di Vladimir Putin, che è ovviamente un grande statista, di gran lunga superiore ai suoi omologhi europei e americani, e anche un esperto praticante di arti marziali fedele ai principi del realismo politico, ma che è anche molto più pragmatico che un «ideologo» Questo non cambia il fatto che, per quanto si possa giudicare oggi, la «rivoluzione di Kiev» ha servito gli interessi americani sopra ogni cosa. Non so se gli americani abbiano ispirato o addirittura finanziato questa «rivoluzione» poiché avevano già ispirato e finanziato le precedenti «rivoluzioni colorate» (Ucraina, Georgia, Kirghizistan, ecc.), cercando di incanalare il malcontento popolare, spesso giustificato, al fine di integrare i popoli nell’orbita economica e militare occidentale. E’ un fatto però che, in ogni caso, l’hanno sostenuta fin dall’inizio senza alcuna ambiguità. Il nuovo Primo Ministro ucraino, l’economista e avvocato miliardario Arseni Yatseniuk, che ha ottenuto solo il 6,9% dei voti alle presidenziali del 2010, si è subito precipitato a Washington dove Barack Obama lo ha ricevuto nello Studio Ovale, onore solitamente riservato ai capi di Stato. A meno di un’imprevedibile inversione di tendenza, le vicende che hanno portato alla brutale cacciata del capo di stato ucraino a seguito delle manifestazioni di piazza Maidan non possono quindi essere considerate una cosa positiva da tutti coloro che si battono contro l’egemonia mondiale degli Stati Uniti.
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Si parla ovunque di un «ritorno alla guerra fredda». Dovremmo piuttosto chiederci se essa sia mai finita. All’epoca dell’Unione Sovietica, gli americani stavano già sviluppando una politica che, con il pretesto dell’anticomunismo, era fondamentalmente antirussa. La fine del sistema sovietico non ha cambiato i dati fondamentali della geopolitica. Al contrario, li ha resi più evidenti. Dal 1945, gli Stati Uniti hanno sempre cercato di impedire l’emergere di una potenza concorrente a livello mondiale. Con l’Unione Europea ridotta all’impotenza e alla paralisi, non hanno mai smesso di vedere la Russia come una potenziale minaccia ai loro interessi. Al momento della riunificazione tedesca si erano solennemente impegnati a non cercare di estendere la NATO nei paesi dell’Est. Stavano mentendo. La NATO, che avrebbe dovuto scomparire contemporaneamente al Patto di Varsavia, non solo è stata mantenuta, ma estesa a Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Lituania, Lettonia ed Estonia, cioè fino ai confini della Russia. L’obiettivo è sempre lo stesso: indebolire e accerchiare la Russia destabilizzando o prendendo il controllo dei suoi vicini. Tutta l’azione degli Stati Uniti mira così a prevenire la formazione di un grande «blocco continentale» persuadendo gli europei che i loro interessi sono contrari a quelli della Russia, quando in realtà sono perfettamente complementari. Questo è il motivo per cui l’«integrità territoriale» dell’Ucraina è più importante per gli Stati Uniti dell’integrità storica della Russia. «Ritornare alla Guerra Fredda», per gli Americani, significa ritornare alle condizioni più favorevoli alla sudditanza dell’Europa a Washington. Il progetto del «grande mercato transatlantico» attualmente in fase di negoziazione tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti va proprio in questa direzione.
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La complicazione deriva dalla natura eterogenea dell’opposizione a Yanukovich. La stampa occidentale ha generalmente presentato questa opposizione come «filo-europea», il che è evidentemente una menzogna. Tra gli oppositori dell’ex presidente ucraino, infatti, ci sono due tendenze completamente opposte: da un lato chi vuole effettivamente legarsi strettamente all’Occidente e sognare di entrare nella NATO sotto l’ombrello americano; dall’altro chi aspira a una «Ucraina ucrainizzata» indipendente da Mosca, così come da Washington o Bruxelles. L’unico punto in comune tra queste due tendenze è la loro totale allergia alla Russia. Le manifestazioni di Piazza Maidan sono state quindi per prima cosa proteste anti-russe, e il risultato è stato che il «presidente filo-russo» Yanukovich è stato deposto. I nazionalisti ucraini, raggruppati in movimenti come «Svoboda» o «Settore Destro» (Pravy Sektory), sono regolarmente presentati dalla stampa come estremisti e nostalgici del nazismo. Dal momento che non li conosco, non so se sia vero. Alcuni di loro sembrano sostenitori di un ultranazionalismo convulso e odioso che detesto. Ma non è affatto evidente che tutti gli ucraini che cercano l’indipendenza sia dalla Russia che dagli Stati Uniti condividano gli stessi sentimenti. Molti di loro hanno combattuto in piazza Maidan, senza sentirsi manipolati, con un coraggio che merita rispetto. L’intera questione è se non saranno espropriati della loro vittoria da una «rivoluzione» il cui effetto principale sarà stato quello di sostituire il «fratello maggiore russo» con il Grande Fratello (Big Brother) americano.
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Per quanto riguarda la Crimea, le cose sono sia più chiare che più semplici. Per almeno quattro secoli, la Crimea è stata un territorio russo popolato principalmente da popolazioni russe. È anche sede della flotta russa, con Sebastopoli che costituisce il punto di accesso della Russia ai «mari caldi». Immaginare che Putin possa tollerare che la NATO prenda il controllo di questa regione è ovviamente impensabile. Ma non aveva bisogno di agire in questa direzione, poiché durante il referendum del 16 marzo quasi il 97% degli abitanti della Crimea ha espresso inequivocabilmente il desiderio di rimanere sotto la Russia, o più precisamente di tornarvi, essendo stati arbitrariamente staccati nel 1954 da una decisione dell’ucraino Nikita Khrushchev. Questa decisione di assegnare amministrativamente la Crimea all’Ucraina è stata presa all’epoca nell’ambito dell’Unione Sovietica – è stata quindi senza grandi conseguenze – e senza alcuna consultazione della popolazione interessata. L’entità del voto del 16 marzo, unita a un’affluenza dell’80%, non lascia dubbi sulla volontà del popolo della Crimea. Parlare in queste condizioni di un «Anschluss» della Crimea, fare il paragone con gli interventi dell’URSS in Ungheria (1956) o in Cecoslovacchia (1968), è quindi semplicemente ridicolo. Denunciare questo referendum come «illegale» lo è ancora di più. La «rivoluzione» del 21 febbraio ha infatti messo fine all’ordine costituzionale ucraino, poiché ha sostituito un presidente regolarmente eletto con un potere de facto, il che ha portato allo scioglimento della Corte costituzionale ucraina. È per questo motivo che i leader della Crimea, ritenendo che i diritti di questa regione autonoma non fossero più garantiti, hanno deciso di organizzare un referendum sul suo futuro. Non si può allo stesso tempo riconoscere un potere nato da una rottura dell’ordine costituzionale, che libera tutti gli attori della società dai loro vincoli costituzionali, e allo stesso tempo fare riferimento a questo stesso ordine costituzionale per dichiarare «illegale» il referendum in questione. Vecchio adagio latino: Nemo auditur propriam turpitudinem allegans («Nessuno viene ascoltato se espone una propria immoralità»). Sostenendo un nuovo governo ucraino direttamente risultante dal colpo di stato del 21 febbraio, gli americani hanno anche dimostrato che la loro preoccupazione per la «legalità» è tutta relativa. Attaccando la Serbia, bombardando Belgrado, sostenendo la secessione e l’indipendenza del Kosovo nel 2008, dichiarando guerra all’Iraq, all’Afghanistan o alla Libia, hanno anche mostrato quanto poco trattino il diritto internazionale come un principio di «intangibilità dei confini» che invocano solo quando gli fa comodo. Inoltre, gli Stati Uniti sembrano aver dimenticato che il proprio Paese è nato da una secessione nei confronti dell’Inghilterra… e che l’annessione delle Hawaii agli Stati Uniti, nel 1959, non era autorizzato da alcun trattato. I vertici europei e americani, che si arrogano la qualità di rappresentanti unici della «comunità internazionale», non hanno contestato il referendum che, qualche anno fa, ha separato l’isola di Mayotte dalle Comore per annetterla alla Francia. Ammettono che il prossimo settembre gli Scozzesi potranno decidere tramite referendum su una possibile indipendenza della Scozia. Perché gli abitanti della Crimea non dovrebbero avere gli stessi diritti degli Scozzesi? I commenti dei leader europei e americani sulla natura «illegale e illegittima» del referendum in Crimea mostrano solo che non hanno capito alcunché della natura di questo voto e che si rifiutano di riconoscere sia il principio del diritto dei popoli all’autodeterminazione che la sovranità del popolo, il fondamento della democrazia.
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Quanto alle minacce di «sanzioni» economiche e finanziarie brandite dagli occidentali contro la Russia, fanno sorridere, e Putin non ha sbagliato a dire apertamente quanto gli siano indifferenti. Putin sa che l’Unione Europea non ha alcun potere, alcuna unità, alcuna volontà. Giustamente non dà credito a Paesi che pretendono di «difendere i diritti umani», ma non possono fare a meno dei soldi degli oligarchi. Come diceva Bismarck: «La diplomazia senza armi è come la musica senza gli strumenti». Putin sa che l’Europa sta fallendo, che è capace solo di atteggiamenti e provocazioni verbali, e che gli stessi Stati Uniti la considerano una entità trascurabile («Fuck the European Union!» come dice Victoria Nuland). Soprattutto sa che, se davvero volesse «sanzionare» la Russia, l’Occidente si sanzionerebbe da solo, perché si esporrebbe a rappresaglie su larga scala di cui ovviamente non è pronto a pagarne il prezzo. È la vecchia storia dell’innaffiatore innafiato. (usare un’arma che ci si ritorce contro, NdT). Basti qui ricordare che il gas e il petrolio russi rappresentano circa un terzo dell’approvvigionamento energetico dei 28 paesi dell’Unione Europea, per non parlare dell’entità degli investimenti europei, in particolare tedeschi e britannici, in Russia. Oggi ci sono non meno di 6.000 aziende tedesche attive sul mercato russo. In Francia, il ministro degli Esteri Laurent Fabius ha minacciato la Russia di non consegnargli due portaelicotteri del tipo «Mistral» attualmente in costruzione presso i cantieri di Saint-Nazaire. In un Paese dove ci sono già più di cinque milioni di disoccupati, la conseguenza sarebbe la perdita di diverse migliaia di posti di lavoro… Quanto agli Stati Uniti, se cercheranno di congelare i beni russi all’estero, si esporranno a ricevere in cambio il congelamento dei rimborsi dei crediti che le banche americane hanno concesso alle strutture russe. L’Ucraina oggi è un paese in rovina. Avrà ulteriori grandi difficoltà a fare a meno del sostegno economico russo e a rimediare alla chiusura del mercato della CSI (la Russia ha finora rappresentato il 20% delle sue esportazioni e il 30% delle sue importazioni). È difficile vedere gli Europei trovare i mezzi per fornirle un aiuto finanziario che non vogliono nemmeno più concedere alla Grecia: vista la crisi che attraversa dal 2008, l’Unione Europea semplicemente non è più in grado di svincolare somme di diversi miliardi di Euro. Afflitti dai propri problemi, a cominciare da deficit colossali, gli Stati Uniti vorranno sostenere l’Ucraina a debita distanza? Possiamo dubitarne. Gli stanziamenti di Washington e del Fondo monetario internazionale (FMI) non risolveranno i problemi dell’Ucraina.
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Per il momento, il futuro resta tanto incerto quanto preoccupante. La vicenda ucraina non è finita, se non altro perché non è ancora chiaro chi rappresenti esattamente la nuova potenza ucraina. Se l’Ucraina sceglie di ancorarsi saldamente all’Occidente, la grande domanda è come reagirà la parte orientale dell’Ucraina, che è sia la più filorussa che la più industrializzata (la parte occidentale rappresenta solo un terzo della produzione del PIL). Come potrebbe la Russia, da parte sua, accettare che un governo radicalmente antirusso gestisca un Paese in cui metà della popolazione è russa? Qualsiasi tentativo di imporre una soluzione con la forza rischia di sfociare in una guerra civile e, in definitiva, nella spartizione di un Paese in cui le principali linee di divisione politiche, linguistiche e religiose si sovrappongono ampiamente alle linee di divisione territoriali. Vedremmo allora ripetersi lo scenario che ha portato alla disgregazione dell’ex Jugoslavia. Nell’immediato, il rischio maggiore è quello di un deterioramento della situazione a Kiev, accompagnato da una serie di iniziative irresponsabili (creazione di milizie, ecc.) e incidenti isolati che si intensificherebbero all’estremo. Né l’Europa né la Russia (che ora rafforzerà la sua alleanza militare con la Cina) hanno alcun interesse a che ciò succeda. Dall’altra parte dell’Atlantico, invece, non mancano i partigiani della guerra.
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L’atteggiamento dei media occidentali è indicativo del loro grado di sottomissione a Washington. Putin è regolarmente descritto come un «nuovo zar», un «membro del KGB», un «neosovietico», ma anche un «fascista» e un «rosso-bruno», sebbene non sia stato lui a dare inizio alla crisi ucraina, e che ha invece mostrato una pazienza straordinaria in questa questione. La Russia viene presentata, se non come una «dittatura» – mentre non ha mai conosciuto nella sua storia un tale grado di democrazia – almeno come un regime «insufficientemente liberale», cioè non sufficientemente conforme ai requisiti della «società aperta». Ma, come ha ben notato Henry Kissinger, «demonizzare Putin non è una politica, ma un modo per mascherare un’assenza di politica». Certamente, come ho detto sopra, non c’è motivo di considerare Putin come un «salvatore» che permetterebbe agli europei di prendere in mano il proprio destino. L’Europa non vuole essere il ramo occidentale di un grande impero russo (l’idea di impero non è riducibile all’imperialismo). D’altra parte, ha il dovere di ammettere la necessità di un’alleanza con la Russia nel grande progetto collettivo di una logica continentale eurasiatica, che è tutta un’altra cosa.
La Russia, da parte sua, dovrebbe avere tutto l’interesse ad ammettere il pluralismo delle identità dei suoi «vicini prossimi». La rabbia ucraina è stata alimentata da una tendenza russa a negare l’identità ucraina che non è immaginaria, anche se a volte è stata esagerata. Probabilmente non saremmo arrivati a questo se la Russia avesse trattato l’Ucraina su basi di uguaglianza e di reciprocità. In una logica federale, le identità locali devono essere rispettate tanto quanto i diritti delle minoranze. Le nozioni di decentramento, autonomia e regionalismo devono entrare nella cultura politica russa, così come devono entrare nella cultura politica ucraina, che ovviamente non è più aperta nei loro confronti (come dimostra l’incredibile decisione del nuovo governo ucraino di negare alla lingua russa lo status di seconda lingua ufficiale). La nozione di zona di influenza ha un significato, e questo significato deve essere riconosciuto, ma l’idea di Paesi «satelliti» deve ora cedere il passo a quella di Paesi partner e alleati. Come ha scritto il croato Jure Vujic, «il progetto geopolitico eurasista della Grande Europa deve essere soprattutto un progetto federatore, di cooperazione geopolitica, basato sul rispetto di tutti i popoli europei e sul principio di sussidiarietà».
Alain de Benoist
Traduzione a cura di Manuel Zanarini
(Alain de Benoist, “Ukraine : la fin de la guerre froide n’a jamais eu lieu”, 23 mars 2014, Revue Éléments. Per abbonarsi alla Rivista in Italia, scrivere alla seguente e-mail: mtdiorama@gmail.com. Il sito della Rivista dove è possibile acquistare anche i numeri di Nouvelle École, Krisis, i libri ed i volumi in formato PDF: https://www.revue-elements.com/)