Ari Aster è un cineasta assunto agli onori della critica, dopo i precedenti Hereditary e Midsommar, in quanto, assieme a Jordan Peele, è il principale esponente di una generazione che sta riportando il cinema horror da intrattenimento sanguinolento ad allegoria per raccontare alcuni degli aspetti più controversi della società contemporanea. Anche in questo film, il regista statunitense centra la trama attorno ai rapporti personali, e comunitari, alzando però l’asticella dell’ambizione al punto da rendere palesi alcune apparenti illogicità della trama pur di rendere chiaro allo spettatore che il viaggio del protagonista è solo un pretesto per parlare d’altro.
Il film, della durata di tre ore, narra il viaggio del protagonista per andare a trovare la madre che vive in un’altra città ed è diviso in quattro parti separate da una dissolvenza in nero giustificata narrativamente da una perdita di conoscenza del protagonista e marca il suo spostamento in uno dei quattro ambienti diversi in ognuno dei quali si ritrova ad essere comunque l’estraneo della comunità. Il primo ambiente è il quartiere, verosimilmente di periferia, in cui vive il protagonista che è infestato da varie forme di criminalità e marginalità sociale, e d è basato sull’assoluta indifferenza verso il prossimo; in questo ambiente il protagonista vive imprigionato nella paura e costretto a scappare per attraversare la strada. Il secondo è la casa, verosimilmente in un quartiere residenziale, in cui il protagonista viene in qualche modo adottato da una coppia che gestisce i propri rapporti, in particolar modo con i figli, facendo massiccio uso di psicofarmaci; in questo ambiente il protagonista vive sedato e sorvegliato dalle telecamere interne della casa. Il terzo ambiente è il bosco in cui vive una comunità itinerante di reietti, chiamata gli orfani per via della loro condizione familiare, che mette in scena un testo teatrale che racconta la storia di un padre che passa la vita a ricercare i suoi figli dispersi in seguito ad un’alluvione; in questo ambiente il protagonista s’immedesima nella storia ed immagina la sua possibile vita se fosse visto in un altro contesto sociale. Il quarto ambiente è la casa materna, in un ambiente esclusivo ed isolato, nella quale viene accolto come un figliol prodigo a cui fare pagare tutti gli errori passati; in questo ambiente il protagonista diventa praticamente l’imputato di un processo.
Durante lo svolgimento della trama il film racconta l’insicurezza sociale contemporanea stigmatizzandone i principali meccanismi di compensazione attuali: l’abuso di psicofarmaci e l’utilizzo spregiudicato della sorveglianza, ed il viaggio del protagonista, prima ancora di essere di autocoscienza, è la progressiva scoperta che la sua solitudine è bilanciata dal metodico spionaggio che è applicato da coloro che si dovrebbero prendere cura di lui. Quasi una rappresentazione del pensiero di Foucault, La tesi del film è che questi meccanismi non servano a proteggere l’individuo, bensì a contenerlo dentro ad una struttura sociale nella quale non è che una pedina funzionale ad altri interessi. Come già in Midsommar, l’unica comunità che sembra avere una forma di relazione reciproca è quella che vive al di fuori del tessuto urbano: le persone accolte nella comunità degli orfani sono le uniche che sembrano avere dei rapporti umani che non siano mediati dall’interesse personale od economico, motore dell’ipocrisia che deve fronteggiare il protagonista. A dispetto della forma narrativa, centrata attorno ad un unico personaggio principale, lo sviluppo è tutto centrato sugli elementi di sfondo della trama in modo da far credere allo spettatore di seguire una storia fino a che, con una rottura della quarta parete, non viene suggerito che si trovi davanti ad uno specchio nel quale vedere l’inadeguatezza della società in cui fa parte.
La paura del protagonista, in definitiva, è rappresentata, priva di qualunque elemento didascalico e basata su sottili elementi visivi, come il risultato della lacerazione sociale in cui vive, frutto della riduzione della vita a mero fatto economico, e che crea una diffidenza reciproca diffusa che mina alla radice ogni rapporto umano. Pur di ribadire coraggiosamente la sua tesi, e rischiando di scontentare gli spettatori, il regista rinuncia ad un lieto fine consolatorio o catartico del protagonista sapendo che in questo modo avrebbe implicitamente assolto la società che sta accusando, ed avallando implicitamente la tesi corrente (nei)liberal(e) che solo l’individuo è responsabile dei propri fallimenti o inadeguatezze.