È stato scritto di tutto sull’arroganza di una cerimonia inaugurale dei Giochi Olimpici che ha ritenuto intelligente far godere il mondo dei nostri capricci progressisti. Scarsa attenzione è stata invece dedicata alla trattazione del rituale olimpico. Gilles Carasso, ex Instituts français de Pologne et de Géorgie, tratta quest’aspetto.
Il rituale olimpico non è solo un’approssimativa ricostruzione storica volta a garantire la continuità con le antiche Olimpiadi, ma conferisce nobiltà ai Giochi: l’alzabandiera, l’inno, il giuramento olimpico, la formula sacra pronunciata dal principe, l’esaltazione della grandezza nazionale. Dà loro anche un’anima. L’accensione della fiamma olimpica è il rito finale verso cui tutto converge. Viene portata all’interno dello stadio, a passo di corsa lenta da uomini e donne che, con i loro nomi, le loro storie, i loro volti, sono simboli. L’ultimo tedoforo alza la fiamma verso il braciere, focalizzando su di esso lo sguardo di tutti i presenti. Il suo volto è quello dei Giochi: Cathy Freeman, campionessa aborigena a Sydney, nel 2000, o, nel 1996 ad Atlanta, Muhammad Ali, sopraffatto dal morbo di Parkinson, hanno portato emozione nella grandiosità meccanica della cerimonia.
I Giochi Olimpici moderni celebrano la gioventù, lo sport come performance, citius, altius, fortius, ma anche come trascendenza delle classi sociali e delle culture particolari. L’unificazione da loro realizzata, nel movimento degli universalismi del XIX secolo, richiedeva la standardizzazione. Non solo quello dei gesti nelle competizioni, ma anche quello dell’estetica e della ritualità. Inizialmente ispirati all’antichità greca, conosciuti grazie a Émile Gilliéron, il disegnatore dei grandi archeologi del XIX secolo, si sono evoluti naturalmente all’inizio del XX secolo, verso uno stile militare, nazionale, grandioso, ciò in cui eccellevano il Fascismo e il Nazionalsocialismo, meglio ancora del lor concorrente comunista: sfilata in divisa, movimenti di insieme, bandiere, inno, giuramento e, dal 1936 a Berlino, accensione della fiamma olimpica al termine di una corsa iniziata due mesi prima ad Olimpia. Fu anche ai Giochi di Berlino che Leni Riefenstahl applicò, insieme alle tecniche di ripresa che ancora oggi costituiscono la grammatica obbligatoria delle trasmissioni televisive delle competizioni sportive, un’estetica antica e magniloquente nello stile di Arno Breker. Olympia, uscito nel 1938, riscosse subito un successo mondiale. Già coronato a Venezia, la corsa di questo film verso la gloria hollywoodiana si concluse il 1° settembre 1939, quando Riefensthal dovette interrompere la sua trionfale tournée negli Stati Uniti per tornare di corsa in Germania.
La cancellazione dei rituali
Ma la religione della performance può anche fare a meno degli orpelli del Fascismo (come un saluto un po’ troppo evocativo, dimenticato nel dopoguerra). I Giochi Olimpici lo hanno dimostrato diventando, con l’avvento della televisione, cioè dello spettacolo mondiale, una gigantesca impresa di intrattenimento. Dato che la regola del dilettantismo è stata da tempo abbandonata, lo spettacolo che adorna le cerimonie di apertura e chiusura, è diventata la parte essenziale. Questa frantumazione dei rituali dovuta allo spettacolo è diventata evidente lo scorso luglio a Parigi. La scelta di rinunciare allo stadio, cioè all’unità di un luogo dove i riti risuonano in un crescendo drammatico, li condanna alla dispersione e all’insignificanza. Pensiamo così di mantenere la spettacolare fiamma sospesa ad una mongolfiera anche oltre i Giochi, dimenticando che è l‘anima dei Giochi, che deve accendersi e spegnersi con essi.
L’alzabandiera, con essa trasportata da un personaggio da videogioco, non ha conservato nulla del cerimoniale militare tranne la presenza finale di alcune uniformi che hanno svolto un servizio di protocollo piuttosto che un distaccamento d’onore. Il giuramento, i discorsi, la formula di apertura, sono stati pronunciati al Trocadéro, non davanti alla folla radunata ma davanti a una tribuna dove erano presenti solo vip, i quali hanno visto la fiamma olimpica per alcuni istanti prima che tornasse al Louvre.
Ai Giochi di Pechino 2022 avevamo già trovato la formula «inclusiva» di una pluralità di portatori finali della fiaccola, seguita dall’accensione del braciere da parte di una coppia. Le imprese sportive di ciascuno di loro sono state brevemente ricordate, il tutto formando una celebrazione dello sport cinese, del collettivo cinese, obbligato dal comunismo. Nella versione francese, abbiamo avuto quattro fasi: l’apparizione di Zinedine Zidane, lo sportivo di fama universale, l’incarnazione del sogno francese; il quale ha subito passato la fiamma a Raphael Nadal che, in compagnia di altri tre grandi campioni stranieri – senza dubbio per stemperare il carattere nazionale della cerimonia – ha percorso il secondo segmento su un battello fluviale, tutti e quattro infagottati in ridicoli giubbotti di salvataggio, annullatori infallibili di un eventuale sentimento epico; poi è toccato ad Amélie Mauresmo unirsi al Louvre ad un gruppo di atleti accuratamente composto per riflettere la diversità francese; e, infine, alle Tuileries, la coppia Marie-Jo Pérec-Teddy Riner ha acceso il braciere olimpico, filmata di spalle, di notte, in un giardino deserto. Una cerimonia noiosa, senza significato, senza spettatori, senza emozione se non l’ammirazione per un bellissimo pallone elettrificato che evoca una mongolfiera. Ma ci vuole qualcosa di più della semplice tecnica per evocare la storia. Quando, il 19 settembre 1783, i fratelli Montgolfier abbozzarono per la prima volta la realizzazione del sogno di Icaro, ciò avvenne di giorno, alla presenza del Re e tra le acclamazioni della folla.
L’industria del turismo
I Giochi di Parigi, completando un’evoluzione già avviata nelle precedenti edizioni di Tokyo e Pechino, hanno visto la sostituzione della parata imperiale con uno spettacolo. La scelta di una cerimonia inaugurale sulle rive della Senna ha comportato l’abbandono dello stadio, luogo in cui questa cerimonia propiziatoria avrebbe dovuto respirare lo spirito olimpico. Certo bisognava fare i conti con questa religiosità di carta patinata, ma c’era di meglio da fare: una gigantesca operazione di promozione turistica. In conformità con la nuova divisione internazionale del lavoro, ciò che doveva essere messo in risalto, più delle meraviglie della tecnologia come a Tokyo nel 2020 o a Pechino nel 2022, era il patrimonio francese. La Francia, che ha regalato al mondo il Festival della Musica, la Notte dei Musei e tutte le varianti dei festeggiamenti, avrebbe fatto risplendere «la ville-lumière». Da qui la presa in mano di questa cerimonia da parte dello Stato culturale come definito e descritto da Marc Fumaroli. Sono state messe a disposizione risorse gigantesche per poter mettere in scena i suoi pallini: industria dei videogiochi, arti di strada, «musica urbana», promozione dello stile «queer» sotto le spoglie dell’arte della moda. Ma soprattutto si trattava di mostrare la città come una sontuosa cornice per l’intrattenimento.
Seguendo la strada aperta dagli studi Disney che hanno ridotto Brueghel a Biancaneve e i sette nani, e l’architettura medievale a Disneyland, era necessario svuotare il paesaggio urbano del suo spessore storico, di quella sedimentazione di vite che regala alle grandi città costruite prima della 20° secolo una densità spirituale alla quale Dubai non potrà mai avvicinarsi. Esporre, come in un aneddoto pittoresco, una Maria Antonietta decapitata da operetta alle finestre del primo palazzo dei re di Francia, proprio sul luogo del suo calvario, è un modo per dire: sì, la Storia è stata brutale, ma l’abbiamo ripulita per bene, cancellato tutte le macchie di sangue e sperma, ora ridiamo di questo passato selvaggio e vi invitiamo a riderne con noi. Trattato in questo modo, il monumento, un tempo aristocratico, può entrare nel circuito della merce e dello spettacolo, fungendo ad esempio da mezzo pubblicitario. Come le opere d’arte dei musei, esso fornisce un ambiente attraente per i selfie.
Ma l’operazione decisiva è stata la trasposizione su schermo. Nessuno ha visto l’intera cerimonia di apertura dei Giochi se non sugli schermi. Né gli ingenui che hanno pagato caro il posto per assistere ad una sfilata di Bateaux Mouches e qualche frammento di spettacolo sotto la pioggia, né i VIP che erano al Trocadéro. A differenza dei giganteschi concerti negli stadi, in cui la minuscola sagoma del cantante si intravede come un certificato di autenticità, qua la visione reale era sugli schermi. Questa volta lo schermo ha sostituito completamente lo stadio, l’unità di luogo. Certo, abbiamo così rinunciato all’intensità drammatica (di un rituale estatico fuori moda che non porta più alcunché), ma abbiamo ottenuto, attraverso la magia della maga elettricità, una spettacolare realtà aumentata. Non solo grazie alla potenza dei fuochi d’artificio che illuminavano le rive della Senna, ma per la brillantezza elettrica, lo shein, la nitidezza come in vetrina, che il tremolio dello schermo dona alle immagini. L’operazione è compiuta, la profezia di Umberto Eco, L’ère du faux, si è avverata, non è più Las Vegas a scimmiottare Parigi, è il contrario.
Il tempo delle multinazionali
Dovremmo ricordare che tale spettacolo trasmetteva un messaggio analogo: la tradizione culturale dell’Occidente è utile al nostro presente solo a titolo decorativo. Possiamo credere agli organizzatori quando dicono che non volevano essere blasfemi. In realtà non anno cosa sia l’Ultima Cena. Per loro è semplicemente un motivo famoso nell’arte europea, e come tale utilizzabile come sfondo per una scenetta queer.
La «rivoluzione Samaranch» degli anni ’80 ha accompagnato in modo notevole il riequilibrio del potere simbolico tra Stati e imprese globalizzate. Aveva però mantenuto un rito olimpico creato da Pierre de Coubertin per un mondo in cui il linguaggio dell’universale apparteneva ancora agli Stati. Nel nostro mondo, dove sono le aziende a pretendere di incarnarlo, è logico che si chieda di diluire nello spettacolo un rito di Stato. Il CIO non si preoccupa certo di così poco: finché tutti gli Stati del pianeta continueranno a comunicare, come si suol dire, attraverso l’«ideale olimpico», indipendentemente dai riti, la grande impresa continuerà a funzionare.
Ciò che potrebbe metterlo in pericolo è la secessione di uno Stato importante che rovinerebbe il mito dell’universalismo olimpico. I Giochi di Mosca furono boicottati nel 1980, l’URSS, in tutta risposta, boicottò quelli di Los Angeles nel 1984, la Russia è stata esclusa da ogni edizione dal 2018. Il cattivo studente continuamente punito potrebbe un giorno decidere da solo di lasciare la classe. Ma questa è un’altra storia.
(Gilles Carasso, “Athènes, Berlin, Paris : grandeur et décadence du rituel olympique”, Èlèments, 13 agosto 2024, traduzione a cura di Piero della Roccella Sorelli)
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