Distinguendo i diversi meccanismi della finanziarizzazione ed il loro impatto, possiamo capire quali siano gli effetti sulla sfera economica, sociale, politica e sulla crescita del settore finanziario. L’analisi classica indica l’aumento delle disuguaglianze, il risultato del progresso tecnologico incompleto (l’aumento della crescita di manodopera qualificata che aumenta più della sua offerta), non offre nessun’altra spiegazione ed è parzialmente esplicativa. Per meglio dire, poggia unicamente sulla tesi che indica come causa dell’aumento della finanziarizzazione, la crescita del settore finanziario senza spiegarne le dinamiche. Ma se non si tiene conto anche dei risultati della trasformazione finanziaria del reddito, del «Sistema» degli investimenti, del debito e del risparmio di tutti i soggetti economici, è molto difficile trovare una via d’uscita che non sia solo un vicolo cieco.
L’esempio empirico degli Stati Uniti
L’esempio empirico degli Stati Uniti è una cartina di tornasole ma non certo l’unica. In Europa ci stiamo avvicinando a grandi passi alla medesima relazione consustanziale tra la finanziarizzazione della Forma Capitale e l’incremento delle disuguaglianze. È chiaro a tutti in che misura gli accordi di Bretton Woods abbiano decisamente riattivato con maggior vigore il mercato finanziario. Quanto la crisi petrolifera delle domeniche a piedi degli anni ’70 sia stata il volano delle deregolamentazioni. Abbiamo saggiato in prima persona le modulazioni liberali degli anni ’80 ed il retroterra che ha rivestito un ruolo fondamentale per la finanziarizzazione dell’economia contemporanea. Tre tappe importanti, decisive e successive alla crisi del ’29 negli Stati Uniti ed al “New Deal”.
Ma quali sono le quattro tendenze della finanziarizzazione? a) l’aumento del settore finanziario nel valore aggiunto dell’economia, sia sotto forma di profitto che di salario, b) il riorientamento delle società non finanziarie verso le attività finanziarie, c) l’assoggettamento delle imprese agli imperativi del valore dell’azionariato, d) l’espansione dell’indebitamento, in particolare delle famiglie. E come spesso accade negli USA ed a cascata in Europa, l’espansione dell’indebitamento, in particolare quello delle famiglie, viene utilizzato a proprio piacimento da alcune minoranze che ne fanno oggetto di propaganda: le conseguenze negative che impattano sulla maggioranza dei cittadini, vengono distorte in maniera tale da renderle oggetto dei desiderati fatti su misura.
Passando dal movimento del femminismo intersezionale che riduce il tutto ad una questione di disuguaglianza ma iscrivibile unicamente alla campagna “Beyond stereotypes” (oltre gli stereotipi di genere) per ciò che riguarda lo stato genitoriale, alle frange radicali del movimento LGBT e degli assimilazionisti. I quali, rivendicano le origini etno-razziali, lo stile di vita, la religiosità ed i diritti altrui, dimentichi di essere in casa propria e pensando di conformare gli immigrati, dalla prima alla terza generazione, alle norme dello stato ospite. Un’illusione impossibile che allontana, ineluttabilmente, dall’accorgersi che esistono delle valide soluzioni alle quattro tendenze della finanziarizzazione. Il fumo negli occhi di un problema a monte che non ha barriere, le due tipologie di virus umani molto più pandemici di altri: la mondializzazione e la globalizzazione.
E per non farsi mancare nulla, continuano a pensare all’aumento delle disuguaglianze legate alla finanziarizzazione, quale fosse una questione che riguarda delle nicchie finanziarie dai salari astronomici, dai banchieri di Wall Streat alla Silicon Valley, dall’industria farmaceutica, alla mercè di una piccola minoranza molto piccola, principalmente composta da uomini bianchi.
Quando in realtà basta dare un occhio in giro per il pianeta, dagli Stati Uniti ai fondi di investimento internazionali, ai grandi gruppi bancari, del petrolio, delle operazioni borsistiche, all’influenza delle agenzie di rating, all’intera sovrastruttura finanziaria, per rendersi conto di quanto si è ridicoli nell’approntare un problema così serio, facendone una contro questione razziale delle colpe dell’uomo bianco.
Quando il modello capitalista della finanziarizzazione dell’economia non bada alle rivendicazioni del colore della pelle, dei gusti sessuali, tanto meno alla mutazione antropologica e “culturale” del sovvertimento dell’ordine naturale, dell’eredità biologica, etc. È omologa ad essi, nella loro fluidità, mobilità e non difformità, dispiegandosi in tutto il pianeta con la stessa modalità. Inglobando le minoranze e non. Per quei gruppi di pressione accennati in precedenza, il fenomeno del lobbying non è certo una novità.
Di conseguenza, non basta tessere dei rapporti in maniera diversa dalle azioni di una lobby tradizionale, mediati, diretti e immediati, tra la lobby di riferimento ed il decisore, pensando di avere la soluzione in tasca (il grassroots lobbying). Nel villaggio globale, la finanziarizzazione è affiancata dalla soggettivizzazione dell’economia, l’unica “garanzia” che è poi un obbligo: ben raffigurata dal tipo di auto-cooptazione spontanea, spesso volontaria, specialmente di coloro che sono convinti di andare in tutt’altra direzione. Un pacchetto “all-inclusive” che esclude chi stimola il «gocciolamento dall’alto verso il basso» (la teoria economica del trickle-down o teoria della goccia), il tic della forma mentis capitalista che in America risparmia pochi, salvo rare e strenue eccezioni.
Dagli Stati Uniti abbiamo importato, progressivamente, il poco interesse per la tendenza dei capitali a trarre profitti fuori dall’ambito della produzione di beni e servizi non volatili. E non bisogna essere dei geni per capire in che maniera questa tendenza viene attuata: spostando rapidamente l’attenzione agli investimenti e disinvestimenti internazionali, con l’indifferenza verso le società di analisti finanziari da cui pendiamo dalle labbra, in special modo quando promulgano i giudizi e le loro valutazioni sui bilanci di enti pubblici e privati, condizionando direttamente i flussi di investimento e la conseguente valorizzazione dei capitali.
Non ci interessiamo nemmeno più ai danni provocati dai “nuovi” strumenti finanziari swap e future (derivati), ancor meno ai contratti di opzione che hanno quasi soppiantato i vecchi strumenti tradizionali della circolazione del denaro. Le obbligazioni, i titoli pubblici, le azioni e i fondi di investimento, impiegati nell’espansione della circolazione dei capitali su più mercati contemporaneamente, alcuni regolamentati ed altri molto ricchi e dal maggior profitto che sfuggono totalmente alle autorità internazionali di regolazione (dark pool).
Ad influire maggiormente sulla volatilità del denaro, innescando i processi delle turbolenze dei mercati, sono queste tipologie di transazioni, più la capacità delle grandi banche di spostare ingenti liquidità. La somma di tutte queste componenti è la causa principale delle crisi finanziarie. Perciò, se è indubbiamente vero che la struttura delle rendite salariali finanziaria è invertita, è pur vero che già dalla fine degli anni ’70, questo meccanicismo finanziario trovò terreno fertile nei dipendenti in fondo alle gerarchie finanziarie dell’epoca, dettato dalle alte sfere e ben assimilato giù a valle.
E come è lecito aspettarsi, visto la natura dei benefici guadagnati dai dipendenti in fondo alle gerarchie finanziare, la situazione cambiò notevolmente. L’incremento inziale dei salari per chi era in fondo alle gerarchie (+ 35% in più di stipendio rispetto a chi lavorava in altri settori), differentemente da chi sedeva ai vertici, con un aumento della contribuzione ma non al pari dei loro sottoposti (+ 20 %), finì per essere capovolta da capo a piedi. Passando in poco meno di un decennio fino alla soglia dei fatidici anni ’80, ad una occupazione nell’ambito finanziario che privilegiava molto di più chi sedeva in cima (+ 60 %) e non gli ultimi (10 %).
Il risultato era stato raggiunto con una doppia combinazione: l’aumento della competizione tra i soggetti finanziari di minor livello e la redditività del processo di trasformazione del sistema economico, che vide gli aspetti puramente produttivi surclassati da quelli finanziari. L’apripista dell’odierna “Open finance”, della competizione finanziaria allargata. Una concorrenzialità a tutto campo che arriva persino a separare i produttori dai distributori di servizi finanziari, all’interno e all’esterno del settore finanziario, con l’intento di voler estendere i servizi finanziari delle Big Tech (Amazon, Apple, Facebook, Alibaba e Tencent, Samsung, Microsoft, Huawei, eBay e Walmart su tutte), ricalcando ciò che accade nei Paesi extra UE.
Mentre le imprese non finanziarie sono conquistate dalla bancarizzazione, aumentando senz’altro le entrate di origine finanziaria, combinando la vendita dei loro beni e prodotti con la distribuzione del credito. Ma sottomettendosi, contemporaneamente, alla coercibilità degli azionisti e del management, puntando dritti alla creazione di valore per gli azionisti. Alla fede cieca nelle strategie del management che stanno man mano rimodellando le attività principali delle aziende, esternalizzando le attività ausiliarie, delocalizzando la produzione nei paesi a basso salario, annullando i diritti fondamentali dei lavoratori.
Ad avvantaggiarsene sono i dirigenti d’azienda stipendiati, i quali dovrebbero essere indeboliti dalla centralizzazione dell’azionariato ma accade l’esatto opposto. Riaffermando e rafforzando il loro potere, in realtà assicurano di agire solo in funzione dell’azionariato. Un potere “effimero” e condizionato dall’alta redditività. Non è un caso che gli stipendi dei 350 CEO con la più alta remunerazione, siano passati da 3 a 30 milioni di dollari.
Il debito è la principale forma della finanziarizzazione delle famiglie americane. Per tanti anni le famiglie più povere sono state escluse dal credito bancario, cosa che non è stata fatta per la classe media. Ma lo sviluppo del credito USA, puntellato dalla deregolamentazione e dalla cartolarizzazione si è rivelato un fallimento. È riuscito solo a spingere la classe media oltre la soglia della povertà e la classe meno abbiente ben oltre la soglia di povertà.
La classe media usufruisce dello sviluppo del credito principalmente per l’acquisto di una casa, mentre la classe povera fa ricorso al credito per il consumo. In entrambi i casi, per l’acquisto di una abitazione o per i generi di prima necessità, il problema è il medesimo: il rimborso ed il sovraindebitamento. L’inclusione nel credito statunitense è vantaggiosa solo per altre fasce di reddito superiori alla classe media, figuriamoci per le famiglie che non ne fanno parte.
Ne consegue un aumento delle disuguaglianze tra fasce di reddito in termini di accesso al credito, garantiti contro non garantiti, che non fa certo distinzioni in base all’origine etno-raziale ma è motivo di continue frizioni tra i diversi gruppi etnici e sociali. Una situazione al limite dell’esplosivo che va ad aggiungersi alla percentuale di dipendenti che beneficiano di un piano pensionistico in netta diminuzione.
Nel 1980 ne beneficiavano il 55% dei dipendenti e nel 2014 meno del 40%. Inoltre, la trasformazione dei piani pensionistici a benefici definiti, con un calcolo della contribuzione definita, li rende maggiormente incerti ed ulteriormente meno remunerativi. Neppure lo stato dell’istruzione gode di ottima salute. Il considerevole aumento del costo degli studi superiori ha favorito un fortissimo aumento dell’indebitamento studentesco, dilatando le tempistiche di restituzione in tempi più lunghi. Come è facile intuire, influendo sulla possibilità di pianificare un futuro lavorativo e della vita che non contempli, in tempi brevi, la restituzione del debito.
La varietà e l’unicum della finanziarizzazione
Alla fine di questa piccola disgressione sulla finanziarizzazione negli Stati Uniti, dei legami tra le varie forme di finanziarizzazione, urge interrogarsi sulla natura unitaria del processo che coinvolge lo spazio e il tempo, agendo all’interno dei vari settori dell’economia.
La tipologia sistemica di finanziarizzazione economica degli Stati Uniti, è presente anche in altri stati ed entità sovranazionali in quanto endemica. La maggior parte degli shock globali come la fine del sistema di Bretton-Woods (1971) hanno riattivato repentinamente il mercato dei cambi, influenzando efficacemente tutte le economie di mercato.
Ma se nella sfera della geopolitica gli Stati Uniti hanno perso il loro aplomb, cosa che esula da un ragionamento sulle esternazioni degli ultimi due presidenti in carica ed escludendo dal discorso i rapporti sino-statunitensi e quelli con la Russia, inversamente il posto centrale degli Stati Uniti nell’economia mondiale è pressoché intatto.
Rimangono a tutti gli effetti i maggiori diffusori delle tendenze finanziarie come quella della «rivoluzione dell’azionariato», di un sistema bancario e della concessione del credito che dopo la legge bancaria Glass-Steagall Act (1933) nella quale erano presenti delle riforme sostanziali contro la speculazione finanziaria, pensarono bene di abrogarla, sostituendola con il Gramm-Leach-Bliley Act (1999), una legge che andava in direzione contraria. Uno dei tanti insuccessi della Presidente Bill Clinton e, successivamente del riformismo di Obama, dimostrando un’insipienza dozzinale con il suo «intervento di riforma di Wall Street» o Dodd-Frank Act (2010), dagli esiti imbarazzanti.
Il fatto che in Europa delle leggi come la Glass-Steagall Act (1933) non siano mai state attuate interamente, la dice lunga sulle linee guida economiche a trazione finanziaria dagli stessi esiti nefasti d’Oltreoceano. Non bisogna avere i paraocchi per capire che se una soluzione è valida ed è a favore di un’economia che si discosta dalla finanziarizzazione, questa può essere attuata nel Vecchio Continente ma con delle specifiche che gli sono proprie. Questo, vista la situazione che è completamente sfuggita di mano. Bisogna pur dire che negli Stati Uniti esistono delle comunità politiche e sociali che si discostano diametralmente dal «politicamente corretto», dagli assunti economico-finanziari vigenti. Tra le tante e per fare un piccolo esempio, troviamo dei centri studi qual è il Telos-Paul Piccone Institute ma altri ancora che osservano le cose da un punto di vista non dottrinale.
È lecito domandarsi per quale motivo non ci dovrebbe essere un confronto con altre realtà che non seguono i dettami neo-liberali, riconducibili al dramma dell’arbitraggio e della speculazione del decennio 1970-1980? Insomma, l’ideologia di cui si nutrivano ha portato ad una estensione senza precedenti della finanziarizzazione. In America come in Europa, Russia, Cina, Centro-Sud America ed Asia, troviamo esempi qualificati che sono innanzitutto ascoltati, per il motivo che studiano i pilastri della finanziarizzazione adeguatamente.
Secondo loro, cosa che dovrebbe esserlo anche per noi, l’argomento importante è quello di riuscire a divellere i pilastri che hanno abolito le regole degli ex agenti di cambio, l’informatizzazione delle transizioni e la deregolamentazione del commercio dei derivati. Intuendo correttamente lo stato delle cose: è arrivato il momento di un confronto costruttivo sui ritmi delle diverse dimensioni della finanziarizzazione statunitense. Il quale non può non tener conto dell’unità del fenomeno, per esaminare delle nozioni diametralmente differenti.
Dopotutto, principalmente dagli USA, continuano ad arrivarci segnali d’allarme cui non possiamo tenere conto. La massimizzazione del profitto è sempre stato lo scopo ultimo del capitalismo. Ma qualcosa sta cambiando e c’è il rischio che possa essere concretizzata, indipendentemente dagli sviluppi del settore finanziario. Inversamente, il “grandioso” sviluppo di alcune società di gestione patrimoniale come BlackRock, rischiano di far saltare il banco. In ballo ci sono le possibili tensioni tra lo sviluppo del settore finanziario e il valore per gli azionisti.
Le famiglie che si affidano alle società di gestione patrimoniale, scottate dalla crisi del mercato azionario del 2001 hanno già abbandonando il possesso diretto di azioni, scegliendo le quote dei fondi comuni di investimento o fondi pensione. L’azionista è sempre meno una persona fisica. Piuttosto, una non bene precisata entità astratta, sempre in bocca agli operatori finanziari.
E giacché queste società di gestione patrimoniali detengono ampie quote dell’economia (nel 2018 i tre gruppi principali di gestione patrimoniale possedevano il 22% dell’indice borsistico S&P 500), potrebbero abbandonare la logica della massimizzazione del valore azionario per concentrare i loro sforzi sul concetto di universal owner, l’idea originariamente formulata dal duo James P. Hawley e Andrew T. Williams. Secondo i quali, nel loro saggio pubblicato nel 2000 dal titolo inequivocabile “The Rise of Fiduciary CapitalismHow Institutional Investors Can Make Corporate America More Democratic”, chiunque può attingere da un’idea innovativa. Riassumendo in breve ciò che asseriscono, i fondi pensione potrebbero essere una parte fondamentale del capitalismo democratico (Sigh!).
Un discorso che abbiamo già sviluppato nel precedente articolo Il decimo compleanno del “nuovo mondo” capitalista è un incubo, a proposito del capitalismo di stato e/o “democratico” che negli Stati Uniti pare trovare nuova linfa, nonostante tutte le contraddizioni del caso. Nello specifico, il voler porre rimedio ad un capitalismo che ha varie sfaccettature, sottovalutando le stesse implicazioni di cui sono oggetto gli stati. Non occorre andare troppo indietro, basti pensare all’ottovolante dei vaccini e al walzer delle farmaceutiche.
Tutto questo, mentre le società di gestione patrimoniale vedrebbero aumentare i loro profitti, incrinando semplicemente il piano di livello e con minore esponenzialità. Inoltre, è bene ricordarlo, negli USA possono sì accelerare una fase iniziale di una crescita economica nel suo complesso ma, questo è fuori dubbio, far pendere lago della bilancia in direzione delle esternalità «finanziarizzate» e di altro tipo. Di certo, non verso le complementarietà positive di una determinata attività.
Le società di gestione patrimoniale sono delle oligarchie capitaliste, mica dei benefattori! Ragione per cui sembrano per ora poco interessate al tutto, rinviando la questione a lungo termine. Sembra così, ma non è scontato. Pur di assicurarsi il potere, l’accumulo di denaro e la massima redditività, potrebbero allontanarsi dai canoni della massimizzazione della creazione del valore. Cosa che stiamo vedendo da più di un anno a questa parte e che nulla c’entra con il valore degli azionisti delle società non «finanziarizzate», ancor meno con la generalizzazione del debito delle famiglie americane e la crescente influenza dei mercati finanziari come mezzo dell’intermediazione finanziaria.
Le quattro tendenze, possiamo dirlo, i quattro orientamenti di mercato, seguono ciascuno il proprio “ritmo” ma hanno tutti un legame specifico. Sta solo a noi invertire la rotta, il più presto possibile. Le famiglie italiane ed europee non sono messe meglio di quelle americane, e non è per nulla una consolazione. Le matrici delle filigrane economico-finanziarie sono le stesse, fino a prova contraria. Questo non è però ciò che direbbero gli americani, non vi pare? Facciamoci una domanda e diamoci una risposta. E se ciò non dovesse bastare, “deciso” che le soluzioni debbano essere le stesse o risalenti alla macroeconomia inglese del XX secolo, significa che siamo messi davvero male.